Editoriale
stampa

"Finchè sei vivo hai un'altra possibilità"

L'editoriale di don Giampiero Moret

"Finchè sei vivo hai un'altra possibilità"

Di fronte alla decisione del dj Fabo di togliersi la vita, diventata per lui del tutto insopportabile, la reazione più umana è quella di partecipare al suo dolore che lo ha portato a questa scelta. È il sentimento di compassione. Ma questo sentimento non deve impedire di interrogarci sul significato del suo gesto. Anche farsi delle domande è autenticamente umano. Tutti lo hanno fatto. I media hanno veicolato prevalentemente l’opinione di giustificare il gesto di Fabiano Antoniani, sostenendo il diritto di morire come espressione massima della libertà di una persona. Inoltre hanno enfatizzato il fatto che Fabiano sia dovuto andare in Svizzera perché fosse riconosciuto questo suo diritto, stigmatizzando il ritardo della nostra politica che, a differenza delle altre nazioni europee, non lo tutela con leggi adeguate. 

Ma c’è stata anche la reazione contraria di opporsi al riconoscimento di un simile diritto. Noi credenti pensiamo che la vita sia un dono di Dio da accogliere sempre con riconoscenza e senza rivendicare un diritto di farne quello che si vuole.

Noi crediamo che anche una vita fortemente limitata offra comunque delle possibilità e meriti di essere vissuta con riconoscenza. E questo non per il gusto malsano di soffrire o per fare della sofferenza il mezzo per poter meritare il paradiso, come una deformata spiritualità ritiene, ma perché crediamo che Dio offra ad ogni forma di vita umana un senso e un valore. Per chi non crede tutto questo è arduo da capire e accettare. Allora bisogna concludere che non si può imporre una visione di fede e che di conseguenza bisogna tutelare anche chi sostiene il diritto di morire? Difficile problema.

Ma proprio il caso doloroso del dj Fabo ha fatto emergere tutta una serie di ragioni umane – e quindi convincenti anche per chi non crede – per contrastare l’affermazione del diritto di morire. Mi ha colpito soprattutto un’accorata lettera scritta da Rita Coruzzi a Fabiano (pubblicata da Avvenire il 20 gennaio scorso). Rita è una disabile trentenne, costretta a vivere in una carrozzina dall’età di dieci anni per un intervento sbagliato, ma non per questo arrabbiata con la vita. La sua idea è che una disabilità, per quanto grave, offre possibilità di esprimere forme di vita nuove, a volte perfino superiori a quelle realizzabili in una situazione di normalità. Sembra un paradosso ma lei ne è convinta e non solo per ragioni di fede, ma per esperienza diretta. Dopo aver riconosciuto tutto il peso della situazione di Fabiano, ha il coraggio di scrivergli: “Tuttavia mi sento anche di dirti che non credo che morire sia la soluzione, perché penso che tu potresti essere una risorsa per questa società e non un peso. E soprattutto hai ancora molto da offrire”. E non si limita ad esortazioni generiche. Facendo riferimento ad esperienze positive fatte da Fabiano quand’era sano – il suo viaggio in India a contatto con povertà estreme e il suo amore per la musica –, gli propone forme concrete per continuare queste esperienze in maniera diversa, ma forse più efficace proprio per la sua situazione di estrema disabilità. E conclude: “Tu per la società potresti essere energia buona e un esempio. È scontato dire che la vita è crudele e ingiusta, che fa scherzi orribili, ma ciò che non è scontato è che chi la subisce ha due scelte: arrendersi e subirne il peso, oppure trovare un’alternativa. Questo è il bello della vita: finché sei vivo hai un’altra possibilità, puoi cambiare le cose, fare la differenza, pur con difficoltà puoi cambiare i tuoi progetti per costruirne di migliori, che magari non avresti neanche lontanamente immaginato”.

Ci troviamo di fronte a due modi diversi di concepire la vita. Chi rivendica il diritto individuale di morire come espressione massima di libertà, apre una via pericolosa. Osservava in un recente articolo Luciano Violante (Osservatore Romano Settimanale del 16 febbraio) che il diritto di morire suppone il dove- C re di dare la morte. Qualcuno deve uccidere per salvaguardare questo diritto. Una conseguenza che contrasta con qualcosa di profondamente radicato nella coscienza umana. Inoltre per quanto si circoscriva questo diritto, gli abusi sono sempre possibili. Pare proprio che questo modo di vedere le cose introduca in una cultura della morte dalle conseguenze imprevedibili. Le convinzioni di Rita sono, invece, per una cultura della vita. Molto impegnativa perché suppone una diffusa disponibilità alla solidarietà verso la disabilità sia da parte delle persone sia da parte dello Stato. Ma molto più umana e capace di arricchire la vita di tutti, con espressioni di vita nuove e con relazioni più solidali che ci tolgono dalla terribile solitudine di pensarsi padroni assoluti della propria esistenza.

Don Giampiero Moret

"Finchè sei vivo hai un'altra possibilità"
  • Attualmente 0 su 5 Stelle.
  • 1
  • 2
  • 3
  • 4
  • 5
Votazione: 0/5 (0 somma dei voti)

Grazie per il tuo voto!

Hai già votato per questa pagina, puoi votarla solo una volta!

Il tuo voto è cambiato, grazie mille!

Log in o crea un account per votare questa pagina.

Non sei abilitato all'invio del commento.

Effettua il Login per poter inviare un commento