Editoriale
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Nell'umanità più fragile un anelito di salvezza

L'editoriale del direttore don Alessio Magoga.

Nell'umanità più fragile un anelito di salvezza

Una cucina spoglia e buia, illuminata solo da un lume ad olio appeso in alto sopra un tavolo, attorno al quale uomini e donne con un bricco di caffè e delle patate fumanti stanno cenando. Sono i “mangiatori di patate”, una delle opere più famose di Vincent Van Gogh (1853-1890), la cui versione in litografia è in mostra da ottobre alla Basilica Palladiana di Vicenza. I cinque personaggi rappresentati mangiano con le mani e sembrano assorti. I loro gesti hanno un tono solenne e sembrano compiersi nel silenzio, con religiosa lentezza. I volti e le forme dei corpi trasudano potenza e umanità. L’umanità è quella vera e concreta, ma allo stesso tempo semplice e povera, degli uomini e delle donne del popolo. Proprio questi uomini e donne Van Gogh aveva incontrato nel distretto minerario del Borinage, una delle regioni più povere del Belgio di fine Ottocento, e nel villaggio di Neunen nelle campagne olandesi. Terre abitate da scuri minatori e da austeri contadini, le cui figure tornano con una frequenza quasi assillante nella prima fase della produzione artistica di Van Gogh. Difficile non vedere nella scena dei mangiatori di patate, ma anche in quelle di altre sue opere, un intreccio o quasi un impasto di umanità e di spiritualità. Da giovane Van Gogh aveva intrapreso il cammino per diventare pastore calvinista, come il padre, ma i suoi formatori gli consentirono di assumere soltanto il ministero di “evangelista laico”, che egli esercitò per alcuni anni. 

Catturato dal vangelo, desideroso di annunciarlo e di viverlo con questa umanità marginale, Van Gogh non dipinse scene bibliche o soggetti sacri tradizionali, ma decise di esprimere il sacro mescolandolo con la terra, il fango, il fumo e il sudore degli uomini e delle donne che incontrava e ai quali cercava di portare – non senza difficoltà – il vangelo. Egli di fatto mescola e impasta l’umanità con la spiritualità, come fa con i colori, a volte stesi sulla tela in modo quasi grezzo, violento e passionale. Impossibile non cogliere nell’espressione artistica – così potente – di Van Gogh un senso di immedesimazione e di solidarietà, vivo e intenso, con questa umanità periferica. Una vicinanza nei confronti dei più umili e dei più poveri: quelli che conoscono molto bene la fatica e la sofferenza e trascorrono delle esistenze alquanto ordinarie, senza troppe stravaganze e distrazioni... Eppure esattamente dentro a questa densa e a volte opaca umanità si percepisce qualcosa di santo, che rinvia a Dio o lo rende presente. O per lo meno si intuisce come un’attesa di redenzione: una speranza, quasi muta e non del tutto espressa, di una salvezza dall’alto. Gli occhi e gli sguardi dei mangiatori di patate sono quelli degli uomini e delle donne che andavano da Gesù nella speranza di un segno, di un miracolo o di una parola di salvezza. Sono gli occhi e gli sguardi degli uomini e delle donne che anche oggi incontriamo dentro alle nostre comunità. Quelli che qualche giorno fa ho visto anch’io – piuttosto da vicino – nella piccola e bella chiesa medievale, dedicata a san Biagio, del borgo di Baver. Ciascuno con il suo carico di pensieri, di preoccupazioni e di timori, ma in attesa di un qualcosa che faccia sperare e nella disposizione di accogliere con fiducia – dentro alla propria fragile umanità – un segno o una parola che apra percorsi e strade nuove. Come per Van Gogh, l’importante è amare questa umanità e sapere scorgere in essa, soprattutto in quella più fragile e sofferente, un anelito di salvezza che squarcia il buio e apre lo sguardo verso il cielo luminoso.

Don Alessio Magoga

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