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CHIESA: Mons. Antoniazzi e l'assise dei vescovi del Mediterraneo a Bari

Nell’intervista all’arcivescovo di Tunisi i temi da affrontare durante l’incontro promosso dalla Cei

CHIESA: Mons. Antoniazzi e l'assise dei vescovi del Mediterraneo a Bari

La Conferenza episcopale italiana, su iniziativa del presidente, il cardinale Gualtiero Bassetti, ha promosso a Bari, dal 19 al 23 febbraio, l’incontro di riflessione e spiritualità “Mediterraneo, frontiera di pace”. Parteciperanno poco più di cinquanta vescovi in rappresentanza delle Conferenze episcopali dei 19 Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Fra gli altri, vi sarà padre Ilario Antoniazzi: 71 anni (di cui quasi cinquanta trascorsi in Medio Oriente) dal 2013 è arcivescovo di Tunisi (Tunisia). La diocesi (l’unica del Paese) può contare su circa 40 sacerdoti di 15 nazionalità e 90 religiose di varie congregazioni. Le chiese sono cinque e vi fanno riferimento circa 40.000 cattolici, quasi tutti stranieri: studenti e migranti dall’Africa subsahariana e lavoratori provenienti da diversi Paesi. In questa conversazione l’arcivescovo Antoniazzi riflette sull’incontro in terra pugliese.

Come giudica l’iniziativa ideata dal cardinale Bassetti?

«È indubbiamente lodevole. Conoscendo bene la regione mediterranea so che l’incontro non sarà certo risolutivo poiché i problemi che affliggono quest’area del mondo sono molteplici e gravi. Se tuttavia noi vescovi ci metteremo nelle mani del Signore e ci impegneremo, con spirito sinodale, confido che qualche risultato buono potremo guadagnarlo riuscendo anche a ravvivare il desiderio di pace di tutti i popoli del Mediterraneo. Dobbiamo essere ottimisti e, come dice san Paolo, sperare contro ogni speranza. Durante l’incontro noi vescovi avremo modo di stare insieme, conoscerci meglio e rafforzare i legami di amicizia: sarà consolante poter condividere i problemi, poter ricevere e offrire parole di incoraggiamento».

Il Comitato scientifico organizzatore dell’incontro, nell’invitare le Conferenze episcopali, ha chiesto ai vescovi di segnalare i problemi e le questioni intra-ecclesiali ed extra-ecclesiali che considerano più rilevanti e urgenti. Lei quali temi extra-ecclesiali ha proposto?

«Il problema maggiore che stiamo vivendo è quello delle migrazioni: molti tunisini e centinaia di persone arrivate qui dall’Africa subsahariana, vogliono partire per l’Europa in cerca di un futuro migliore. Si teme che presto, a tutti costoro, si aggiungeranno i libici in fuga da un Paese che sta sprofondando nel caos: il governo tunisino sta già allestendo campi di accoglienza ad hoc. Sul tema delle migrazioni ho maturato questa convinzione: dobbiamo lavorare non solo, ovviamente, per assicurare ai migranti un’accoglienza rispettosa della loro dignità, ma anche per scoraggiare queste partenze che stanno drammaticamente impoverendo l’Africa e che espongono i migranti giunti in Europa a patire violenze, avvilimenti, prepotenze di ogni genere. Soffro molto quando vengo a conoscenza di tutte queste sofferenze. Ovviamente, chi fugge da guerre e fame deve essere accolto! Ma affermare che in tutta l’Africa vi sono guerre e fame sarebbe una falsità. Le Chiese si stanno molto prodigando per i migranti, gli esempi felici di accoglienza non mancano: purtroppo paiono essere gocce nel mare. Mi addolora il disprezzo verso l’Africa che l’Europa manifesta.

Mi fa soffrire il fatto che se un italiano lascia il proprio Paese viene definito un cervello in fuga mentre se a partire è un africano è semplicemente un migrante. In Europa non ci si rende conto che anche i giovani africani sono cervelli in fuga e la loro partenza contribuisce a impoverire sempre più un continente già pesantemente sfruttato. E in un continente senza giovani la speranza è destinata a affievolirsi sino a morire. Un giorno un cardinale africano mi diceva che ogni giovane che parte è come un albero che viene sradicato dalla collina. Prima o poi la collina, sempre più privata dei suoi alberi, finirà per franare. È questo che vogliamo?».

La Conferenza Episcopale Italiana, nel 2017, ha avviato la campagna “Liberi di partire, liberi di restare” per promuovere l’accoglienza e l’integrazione dei migranti, e, allo stesso tempo, offrire opportunità (educative e professionali) per evitare la migrazione poiché ogni essere umano deve poter vivere dignitosamente nella propria terra. I salesiani, nel 2015, hanno varato il progetto “Stop Tratta” che si propone di informare capillarmente chi intende emigrare dall’Africa subsahariana per ragioni economiche dei gravi rischi che il viaggio comporta e offrire opportunità di lavoro a chi decide di restare in patria. Come valuta queste iniziative?

«Sono iniziative che percorrono la strada giusta: qui in Tunisia partecipiamo al progetto della Cei attraverso la Caritas locale. Il problema è che in Africa le persone considerano soltanto il “liberi di partire”: e quindi si sentono autorizzate e quasi invitate a emigrare. Il “liberi di restare” viene del tutto ignorato. Io e i sacerdoti della diocesi non incoraggiamo mai i tunisini e i migranti giunti dall’Africa subsahariana a partire per l’Europa: cerchiamo sempre di dissuaderli sia spiegando i pericoli e la vita difficile cui andranno incontro, sia aiutandoli, per quanto possiamo, a fare ritorno nel loro Paese di origine e a costruire lì una vita buona».

Vi è qualche iniziativa in ordine alle migrazioni che vorrebbe proporre durante l’incontro di Bari?

«Non penso a una iniziativa specifica. Vorrei far presente che i ripetuti e accorati appelli all’accoglienza, necessari ai cuori induriti d’Europa, qui in Africa vengono totalmente fraintesi e considerati veri e propri inviti a partire. A mio giudizio dovremmo tutti impegnarci per affiancare a questi doverosi richiami sia parole chiare sull’importanza di restare nei propri Paesi di origine sia ulteriori progetti per sostenere chi non vuole partire».

Quale pensa sia il tema intra-ecclesiale più importante da affrontare?

«Direi il dialogo con l’Islam. Non basta convivere pacificamente con i musulmani, bisogna giungere a vivere bene con loro. Dovremmo impegnarci maggiormente per costruire un dialogo capace di edificare con i musulmani rapporti basati sull’amore, la benevolenza, il rispetto, la concordia. In Tunisia la Chiesa si sta spendendo molto per raggiungere questo obiettivo e i primi risultati si vedono. Qui si vive insieme serenamente, non ci si limita a convivere. Quando persone provenienti dall’Europa (pochissime, purtroppo) vengono a trovarci restano sorprese nel constatare i nostri buoni rapporti con i musulmani. La Tunisia non è il Paese dei terroristi, noi cattolici non siamo mai stati minacciati né offesi. Vorrei proprio che i fedeli italiani si accorgessero di noi: la nostra Chiesa, piccola, fragile ma molto viva, è di fatto sconosciuta; le comunità cattoliche tunisine si sentono ignorate, incomprese, non apprezzate: ciò è per me motivo di sofferenza. Certo, riceviamo sostegno e aiuti, anche economici, dalla Cei, ma desidererei molto che i fedeli italiani venissero a visitarci».

Pensa che un gemellaggio con una diocesi italiana potrebbe essere utile?

«Certo! E si potrebbero anche organizzare pellegrinaggi sui passi di sant’Agostino: la Tunisia è stata terra cristiana per lungo tempo e ha donato al cristianesimo figure esemplari. Forse in Italia non ci si rende conto che la Chiesa tunisina ha molto da offrire».

Quali ricchezze porta in dono?

«La nostra è una Chiesa autenticamente universale: i cattolici – studenti, imprenditori, operai, diplomatici, migranti –  provengono da Europa, Africa e Asia. Restano in Tunisia per un numero limitato di anni: un quarto di loro parte ogni anno per tornare nel Paese d’origine o emigrare e viene sostituito da nuovi fedeli. Nonostante questi continui mutamenti, le nostre comunità sono molto vive. Noi seminiamo per amore del Signore consapevoli che non vedremo i frutti del nostro lavoro, sappiamo accontentarci di piccoli successi e ne gioiamo, senza mai cedere allo scoraggiamento. Credo che questa nostra esperienza possa essere utile alle Chiese europee che mi pare si scoraggino facilmente quando non raccolgono grandi successi».

Quali frutti spera possa portare l’incontro di Bari?

«Sorretti dalla speranza, fiduciosi nell’amore del Signore, animati da un sincero desiderio di collaborazione, noi vescovi dovremo anzitutto impegnarci a seminare cominciando a gettare il seme buono dell’amicizia e della stima reciproca. I frutti arriveranno».

Cristina Uguccioni - VaticanInsider

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