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DONNE: occupazione, si allarga il divario con l’Europa

Nel periodo aprile-settembre 2020 l’Italia ha registrato una perdita di lavoratrici doppia rispetto alla media europea

DONNE: occupazione, si allarga il divario con l’Europa

Nel 2020 l’Italia avrebbe dovuto raggiungere i target previsti dalla Strategia Europa 2020 con l’innalzamento del tasso di occupazione a quota 67% e l’incremento in numeri e qualità del lavoro femminile, vero tallone d’Achille del sistema. Ma lo scoppio della pandemia ha fatto saltare i programmi, rendendo non solo più difficile il conseguimento degli obiettivi previsti, ancora lontani dall’essere raggiunti ben prima dell’emergenza Covid-19, ma allargando ulteriormente il divario che separa il nostro Paese dal resto d’Europa.

Nel periodo aprile-settembre 2020 l’Italia ha registrato una perdita di lavoratrici doppia rispetto alla media Europea. A fronte di un calo del 4,1% delle lavoratrici italiane tra i 15 e 64 anni (402 mila in meno), in Europa il numero delle occupate nella stessa fascia d’età è diminuito del 2,1%. Dopo la Spagna, il nostro è il Paese che segna la contrazione più elevata nell’occupazione femminile. Ma è soprattutto quello in cui il differenziale di genere nell’impatto della crisi risulta più elevato, con un gap di ben 1,7 punti percentuali tra uomini e donne che non ha pari in Europa. In media nel continente uomini e donne registrano, infatti, la stessa contrazione occupazionale (-2,1%). In Spagna, dove l’occupazione femminile è risultata in forte calo (-5,2%), il divario di genere è basso, di soli 0,4 punti percentuali. In Francia sono gli uomini ad avere registrato il calo più consistente dell’occupazione; mentre nel Regno Unito, l’occupazione femminile è aumentata, seppure di poco, mentre quella maschile è calata dell’1,1%.

Mediamente, su 100 posti di lavoro persi in Europa quelli femminili sono 46, mentre in Italia 56. Tra i grandi Paesi nessuno fa peggio di noi: in Spagna, ogni 100 occupati in meno, 48 sono donne; in Francia sono 44. Non mancano poi casi in cui l’occupazione femminile ha retto meglio di quella maschile come Austria, Portogallo, Grecia, dove la quota di donne sul totale dei posti persi è di circa un terzo. Tali dinamiche hanno inciso significativamente anche sui livelli di occupazione, ovvero su quei parametri che avrebbero dovuto rappresentare il traguardo della Strategia europea. Negli ultimi 12 mesi, il tasso di occupazione femminile nella fascia d’età 15-64 anni in Europa è passato dal 63,3 al 62,4 (con una diminuzione di 0,9 punti percentuali); in Italia, dal 50,1 al 48,5 (con una diminuzione di 1,6 punti percentuali), ampliando ancora di più il divario con gli altri Paesi. Solo la Grecia continua a presentare, assieme a noi, un tasso occupazione al di sotto della soglia dl 50%.

L’Italia continua a rappresentare un unicum nello scenario europeo ed internazionale per quanto riguarda il lavoro femminile. A partire dal livello di partecipazione delle donne al lavoro, che da sempre si attesta su valori molto più bassi degli altri Paesi, che potrebbe essere dipeso da molteplici fattori: il ritardo storico nell’accesso al lavoro da parte delle donne, l’insufficienza dei servizi per l’infanzia e le persone che necessitano di assistenza, il radicamento che ancora esiste in molte aree del Paese di un atteggiamento culturale non sempre favorevole alla donna che lavora. In ultimo, la carenza di opportunità lavorative, vero nodo del sistema. Ma anche quando le donne accedono al lavoro, la loro condizione occupazionale continua ad essere caratterizzata da una debolezza strutturale che finisce per renderle più esposte ai rischi di espulsione dal mercato rispetto agli uomini e alle colleghe di altri Paesi. Le stesse dinamiche che hanno interessato il lavoro femminile in questi ultimi mesi ben evidenziano le dimensioni in cui si si annidano le principali criticità. La prima riguarda il lavoro autonomo, colpito fortemente dalla crisi. Nei mesi di aprile-settembre 2020, l’occupazione indipendente femminile è diminuita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente di 103 mila unità registrando una contrazione del 6,4%, praticamente il doppio di quella registrata dagli uomini. In nessun Paese europeo si è assistito ad un calo così forte: in media le autonome sono diminuite dell’1,6%, più o meno quanto gli uomini (-1,9%). Da un lato ciò è dovuto all’impatto settoriale della crisi che, come noto, ha penalizzato soprattutto la filiera del turismo-tempo libero, attività ristorative e commerciali, ad alta densità di lavoro femminile micro-imprenditoriale in Italia (tab.1 e fig. 4). Dall’altro lato, però, non va trascurato come lo stesso modello di lavoro autonomo, pur utile traino alla crescita dell’occupazione femminile negli ultimi anni, presenti da noi alcune dimensioni di fragilità che ne indeboliscono la stabilità occupazionale. Secondo una recente indagine svolta da Eurostat sul lavoro autonomo nei Paesi membri, il 17,5% delle lavoratrici italiane che esercita attività in proprio lo fa per un solo committente; tale percentuale non solo risulta quasi doppia rispetto alla media europea (9,2%) ma è anche la più alta del continente. È evidente che la presenza elevata di una componente “ibrida”, a metà strada tra dipendente e autonomo, privi tante occupate di quella forza contrattuale che deriva dall’avere un mercato pluri-committente esponendole, come visto, ad un maggiore rischio di perdita del lavoro.

In secondo luogo, sempre il confronto europeo evidenzia come la stessa flessibilità del lavoro, sia contrattuale che oraria, abbia nel nostro Paese un ruolo più penalizzante che funzionale alle esigenze delle lavoratrici. Diversamente da quanto avviene in Europa, dove il ricorso ai contratti a termine e al part time trovano giustificazione in specifiche richieste delle lavoratrici, in Italia sono condizioni più imposte che desiderate. In tutta Europa, le lavoratrici a termine sono state le più colpite dalla crisi: tale componente di lavoro ha registrato una contrazione del 14,5%, di poco inferiore a quella maschile (16%). In Italia, il calo è stato più elevato (19,4%) per le donne e, in questo caso, superiore a quello maschile (16,7%). Anche con riferimento al part time si registrano indicazioni simili: a fronte di una perdita del 3,2% di occupate con tale formula in Europa, nel nostro Paese il calo è stato del 6,9%. Perché il ricorso al lavoro flessibile risulta in Italia più penalizzante per le donne, sia rispetto alle colleghe europee che agli uomini? Una delle motivazioni può essere rinvenuta nel fatto che si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di un’alternativa all’impossibilità di trovare un lavoro stabile. A fronte di una media del 17,5% di occupate con contratti a termine (sul totale delle dipendenti), di poco superiore a quella media europea (15,6%), la maggioranza delle italiane occupate a termine – l’80,6% - dichiara di aver optato per tale modalità perché non è riuscita a trovare un lavoro temporaneo. Di contro in Europa tale motivazione vale per poco più della metà delle occupate (53,2%), mentre per l’altra metà quella del lavoro a termine è una scelta che deriva dalla volontà di avere un contratto temporaneo o dall’essere contestualmente impegnata in attività formative.

Ancora più evidente risulta la residualità della scelta con riferimento al part time. A fronte, infatti, del 38,2% di lavoratrici che volontariamente ha scelto tale modalità, ben il 61,2% è stata costretta ad accettare tale condizione in assenza di alternative. In Europa, invece, i rapporti sono del tutto diversi: per il 76,5% delle lavoratrici interessate questa appare una vera e propria scelta, di vita e di lavoro, con punte del 91,9% in Germania e del 95,5% nei Paesi Bassi. Solo per il 23,5% si tratta di una condizione non voluta.

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DONNE: occupazione, si allarga il divario con l’Europa
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