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Disturbi del comportamento alimentare nel mondo giovanile

Il punto di vista delle dottoresse Fontana e Titton dell’ULSS 2

Anoressia (dal greco: “non appetito”), bulimia (“fame da bue”) e “binge eating disorder” o BED (dall’inglese: “disturbo da abbuffata”): sono questi i principali disturbi del comportamento alimentare (DCA) che fanno parte del più grande ambito dei disturbi alimentari. I DCA sono un tipo di patologia in crescita anche nel nostro territorio e colpiscono particolarmente le ragazze, a cominciare dalla preadolescenza. Nell’ULSS 2 ogni anno si riscontrano circa 120-130 nuovi casi, mentre gli esordi dei DCA si stanno sempre più abbassando verso i 14 anni. La patologia è caratterizzata da un’alterata modalità di alimentarsi ed ha delle importanti ripercussioni sulla salute fisica, sulla psiche e sul modo di relazionarsi con gli altri. I tempi di trattamento e di cura sono lunghi: il 20-30% dei casi va dai 2 ai 4 anni; circa il 70% dagli 8 ai 10 anni e la restante percentuale cronicizza e necessita di monitoraggi a lungo termine. Nel lungo cammino verso la guarigione, è fondamentale il coinvolgimento delle famiglie, anche perché si tratta spesso di minori (il 30% ha meno di 18 anni) per i quali la famiglia rappresenta un riferimento strategico. Durante tutto il percorso, vanno sostenuti anche i familiari che hanno un ruolo particolarmente impegnativo: combattere i DCA è molto difficile e ogni pasto rischia di trasformarsi in una vera e propria battaglia. Per capire meglio di cosa si tratta, abbiamo intervistato la dott.ssa Francesca Fontana, responsabile del centro provinciale dei disturbi del comportamento alimentare di Treviso (ULSS 2), che coordina le tre equipe dei distretti di Treviso, Pieve di Soligo e Asolo, e la dott.ssa Francesca Titton, medico psichiatra del distretto di Pieve di Soligo (ULSS 2).

«I DCA – esordisce la dott.ssa Fontana – sono un tentativo di “autocura” fallimentare di un disagio psichico sottostante, che si manifesta con comportamenti diversificati, spesso legati al bisogno del controllo. Nell’anoressia il bisogno di controllo si manifesta nella necessità di mantenere il proprio peso il più basso possibile, con la restrizione alimentare, l’iperattività fisica o altre metodiche compensatorie (il vomito indotto o l’uso di lassativi). Nell’ambito della bulimia nervosa, invece, prevale l’aspetto della perdita del controllo, con l’assunzione di una grandissima quantità di cibo (migliaia di calorie in poco tempo), cui seguono lo sfinimento, il senso di colpa e il successivo tentativo di eliminare quanto si è ingerito».

C’è una differenza chiara tra anoressia e bulimia? «Ci possono essere delle abbuffate anche nell’anoressia – risponde la dott.ssa Titton – e si parla di anoressia di tipo bulimico-purgativo, con abbuffate e successive modalità compensatorie. Vi può essere un passaggio da anoressia restrittiva a bulimia e da bulimia a BED. Questi disturbi a volte hanno un andamento trasversale, perché si può passare – anche se non nell’immediato – da una forma all’altra, se non si viene aiutati a risolvere il problema».

Come si possono riconoscere? «Nell’anoressia – continua Titton – appare subito il sottopeso, che è il primo sintomo che si vede. I genitori si accorgono che c’è qualcosa che non va e portano la figlia dal medico. Più difficile è capire la bulimia nervosa, perché il peso è normale. Per questo, le ragazze con bulimia arrivano spesso ai servizi ad un’età più alta e da sole, anche all’oscuro dei propri genitori. Anche il BED è più difficile da riconoscere perché spesso viene considerato semplicemente un problema di sovrappeso e di obesità».

Quanti sono i casi nell’ULSS 2? «Presso il nostro centro DCA di Treviso, ci sono circa 120-130 prime visite all’anno – risponde Fontana –, cui andrebbero aggiunte le ragazze sotto i 15 anni, che si rivolgono al servizio dell’età evolutiva, e quanti si rivolgono direttamente a privati (psicologi o nutrizionisti)».

Quali sono le cause dei DCA? «Nonesistono cause – afferma Titton – ma fattori di rischio. La genesi della patologia è multifattoriale e sono diversi gli elementi che incidono. Più fattori di rischio ci sono e più è facile che la persona cada nei DCA. I fattori possono essere genetici: recenti studi evidenziano che alcuni geni possono predisporre una maggiore sensibilità ad un certo tipo di disagio. C’è anche un aspetto “epigenetico”, vale a dire il condizionamento dell’ambiente durante il periodo della gravidanza e i primi anni di vita del bambino. Ci sono poi i fattori psicologici, come la scarsa autostima, la non soddisfazione per il proprio aspetto, l’idea del perfezionismo che si crea lì dove ci sono grandi aspettative di “performance”. Incidono anche le trasformazioni del corpo in adolescenza: un menarca precoce ad esempio in una ragazzina, che non è in grado di affrontarlo, può trasformarsi in rifiuto del proprio corpo. E poi ci sono i fattori ambientali e culturali, come l’enfasi sulla magrezza e la fobia dell’obesità che porta ad avere una grossa ansia rispetto all’aumento di peso con influenze sociali sul seguire delle diete».

Altri fattori? «Influisce molto anche l’ipercriticismo – riprende Fontana – che può ridurre il senso di autostima e la possibilità di esprimere i propri vissuti emozionali. Anche gli abusi subiti rendono la persona più vulnerabile nei confronti di questo tipo di patologie, anche se non in modo necessitante. Altri fattori precipitanti sono lutti, malattie, separazioni, traslochi, rotture sentimentali: tutte situazioni di maggiore vulnerabilità emotiva e di incertezza. Anche gli episodi di bullismo in preadolescenza possono avere un impatto molto rilevante».

Gli effetti dei DCA sono reversibili? «Se le pazienti sono prese in cura presto – risponde Titton –, nel giro di qualche anno ne escono e non c’è un danno permanente. Se invece il sottopeso persiste per più di 5-10 anni, varie conseguenze sul piano sia psicologico che organico tendono a persistere. Ad esempio, l’osso si demineralizza e si va incontro all’osteoporosi con un rischio di rottura spontanea delle ossa».

I familiari come possono accorgersene? «Un adolescente che si mette a dieta – afferma Fontana – con una dieta sempre più restrittiva; un cambiamento “drastico” nell’alimentazione; non mangiare alla presenza dei familiari, inventando scuse; non uscire più e non mangiare con gli amici; la perdita di peso di 7-8 kg in pochi mesi; la amenorrea… sono tutti segnali da prendere in massima considerazione. Per la bulimia, invece, si possono notare queste spie: le scorte degli alimenti che diminuiscono rapidamente, la necessità di andare in bagno subito dopo i pasti, gli sbalzi d’umore, l’irascibilità, la maggiore difficoltà a tollerare i conflitti, l’insonnia...Un altro sintomo molto frequente, soprattutto nella bulimia, è il “cutting” (farsi dei tagli): tale comportamento ha una funzione punitiva e liberatoria, perché si trasferisce il dolore emotivo nel dolore corporeo, che sembra più tollerabile».

«Anche l’isolamento sociale – continua Titton – e il buttarsi solo nello studio. Molte ragazzine che hanno problemi di anoressia sono ragazze modello: brave a scuola e brave in famiglia, sempre disponibili».

Quale trattamento per i DCA? «Il trattamento principale – afferma Fontana – è di tipo ambulatoriale multiprofessionale intensivo, mentre un 30% circa delle pazienti ha bisogno di un trattamento residenziale o semiresidenziale. A volte può essere necessario anche il ricovero ospedaliero, che si fa – a seconda dell’età – in pediatria o in medicina. Per i ricoveri residenziali e semiresidenziali, i riferimenti sono “Futuro Insieme” e il centro diurno di Treviso a livello provinciale e la rete delle strutture per i DCA regionali. In sinergia con noi c’è anche l’associazione L’Abbraccio per il coinvolgimento dei familiari».

Come si avvia il percorso di cura? «Dopo un primo contatto telefonico, la persona viene in ambulatorio – spiega Titton – e si incontra con lo psichiatra o lo psicologo: attraverso colloqui e test si dà un primo inquadramento alla situazione. La valutazione comprende anche la visita con un medico nutrizionista e la dietista. È molto raro che l’approccio solo psicoterapeutico porti frutti: ci vuole un apporto multiprofessionale integrato, vale a dire un trattamento interdisciplinare e in rete».

Si tratta di cammini lunghi? «Sì, l’importante è mantenere la fiducia, la speranza e il senso di giustizia. A volte ci sono delle “scivolate” – non direi “ricadute” –: c’è un miglioramento e poi un passo indietro, che la ragazza e la famiglia rischiano di vivere come un fallimento. Invece si sa che, dopo il primo anno, ci può essere un momento in cui si arretra, ma per ripartire e andare più avanti. Molto importante è aiutare le pazienti e le famiglie a vivere la “scivolata” come il segno che c’è ancora qualcosa da risolvere, ma per crescere e guadagnare una migliore autostima».

Che ruolo ha la famiglia nel trattamento? «I familiari sono importanti – afferma Fontana – e devono essere degli alleati. Certe dinamiche da “mamma canguro”, troppo protettiva, possono essere di rinforzo al disagio e contribuire a posticipare il percorso di cura. Anche l’atteggiamento opposto da “rinoceronte”, rigido, che cerca di convincere razionalmente la figlia a mangiare, può rinforzare il senso di conflitto e quindi non è d’aiuto». «Fa la differenza come la famiglia si mette in discussione e accetta, pure lei, di cambiare. Deve essere chiaro – conclude Titton – che per un figlio o una figlia che ha un disturbo alimentare la famiglia non è un problema ma una risorsa».

Alessio Magoga

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