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Il Libano ripiomba nell’incubo della guerra

Intervista ad Alberto Capannini, della comunità Papa Giovanni XXIII, impegnato nell'Operazione Colomba in Libano

Il Libano ripiomba nell’incubo della guerra

Il Libano con l’attentato di martedì 4 agosto è ripiombato nell’incubo della guerra civile, che da 45 anni covava sotto le macerie ed era stata stoppata nel 1990 con il ritorno ad una convivenza tra religioni e etnie regolata da una rigida spartizione degli incarichi politici e amministrativi.

Allora ebbero un ruolo chiave nel processo di pacificazione la Siria – non più potenza regionale – e Israele. Sono seguiti anni di ricostruzione del Paese dei cedri accanto a crisi economica e istituzionale e stagioni di violenze che hanno raggiunto il suo apice nel 2005 con l’uccisione dell’ex primo ministro Rafic Hariri, marcando l’attuale situazione interna del Paese caratterizzata da un equilibrio notevolmente instabile.

Ora le esplosioni dell’altro tardo pomeriggio e le immagini strazianti che abbiamo visto non fanno che rafforzare come il Paese sia una diffusa polveriera collegata ad un timer pronto ad esplodere. Diverse le ragioni di questa situazione per approfondire le quali abbiamo intervistato Alberto Capannini, volontario della comunità Papa Giovanni XXIII impegnato nell'Operazione Colomba in Libano.

 

Stiamo assistendo ad una ripresa delle proteste in queste settimane in Libano, contro corruzione, crisi economica e carovita. Dai manifestanti emerge chiaramente le condizioni di miseria in cui versa la maggioranza del Paese. Continui blackout, la lira è carta straccia, la popolazione è alla fame. Situazione sull’orlo di una guerra civile?

Non occorre aspettare una guerra per muoversi , il Libano ha avuto una forma di stabilità fondata su molte contraddizioni che ora stanno esplodendo: il sistema dei partiti , la corruzione, una classe politica che non ha accettato di rinnovarsi e un modello economico con ricchissimi e poverissimi fianco a fianco…. Per ora l’unica cosa che sembra reggere è la sua tolleranza...

 

Perché le proteste che avevano occupato le strade di Beirut e di altre città nei mesi scorsi prima della pandemia di coronavirus, si stanno concentrando a nord attorno alla città di Tripoli? 

Tripoli, capitale della zona più sunnita, del nord, è un posto in cui le contraddizioni diventano conflitti  in tempi molto brevi, è una città calda in cui sono presenti gruppi estremisti di diverse fazioni, e velocemente la popolazione ha visto al povertà trasformarsi in miseria, l’indisponibilità ad ogni cambiamento da parte della classe dirigente a Tripoli è vista come una minaccia mortale. Nelle fasi più accese del conflitto in Siria ad esempio tra i due quartieri di Jabal Mohsen e Bab Al Tabbaneh  era diventato uno scontro a colpi di missili, razzi , mitra… Tripoli non scherza, purtroppo.

 

Il Libano è il paese con il più alto numero di profughi pro capite del mondo e non aderisce alla convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. Quali sono le condizioni di vita dei profughi?

I rifugiati siriani, più di un milione, vivono per lo più nel nord e nell’est del paese, più del 95% di loro non ha documenti e almeno 400mila vive in tende precarie di nylon e legno. Una parte di queste famiglie riceve aiuti dalle Nazioni Unite che permettono poco più della sopravvivenza, ma per legge è loro vietato ogni lavoro che non sia fare il bracciante nei campi o il manovale nell’edilizia. E ovviamente in nero. Almeno un terzo dei bambini siriani non ha accesso alla scuola regolare e la sanità, privatizzata a pagamento su modello americano anche per i libanesi, è praticamente irraggiungibile. I siriani in Libano vivono una situazione di limbo da ormai 10 anni, se tornano in Siria saranno costretti ad arruolarsi o ad andare in carcere (gli uomini), in Libano non c’è futuro e il resto del mondo non li vuole: forse più che un limbo sembra un inferno. Fa molto riflettere il fatto che il Libano, ha accolto, pur essendo grande come una piccola regione italiana, più della somma totale dei profughi siriani che ha accolto l’Europa intera. Abbiamo poco da criticare direi!

 

La guerra in Siria e in Libia hanno messo in secondo piano il dramma di altri popoli del Medio-Oriente e fra questi, senza dubbio, il Libano. Nel Paese dei cedri è sempre più frequente restare al buio, senza elettricità né connessione a internet.

Qual è la situazione oggi del popolo libanese?

E’ di questi ore la terribile notizia dell’esplosione di Beirut, ancora le responsabilità non sono chiare, ma nell’esplosione è andato perso l’85% delle derrate in grano del paese; derrate che erano stoccate vicino ad un enorme deposito di esplosivo nel centro esatto di Beirut. La crisi è anche incuria, follia, disinteresse per la cosa pubblica A questo si aggiunge una crisi economica spaventosa, con una svalutazione vicina all’80% e il fatto che le richieste di cambiamento da parte di tutta la popolazione libanese rivolte alla classe politica sono state totalmente inascoltate. Tanti nostri amici libanesi ci dicono di temere che solo una guerra possa cambiare una situazione così bloccata.

 

Un tempo il Libano al centro delle mediazioni diplomatiche nell’area, per la sua storia come membro fondatore sia della Lega Araba che della Nazioni Unite, pare vivere un tempo di posizioni diplomatiche da retrovia. E’ tutta colpa degli hezbollah, l’Islam politico sciita, o di un paese stremato dalla peggiore crisi economica degli ultimi trent’anni? Qual è il ruolo delle Chiese cristiane nel preservare lo status di neutralità come cifra identitaria della nazione fin dal suo sorgere?

Hezbollah col suo esercito privato è decisamente una presenza ingombrante in Libano che, per fare un esempio, ha trascinato nella guerra di Siria macchiandosi di crimini contro la popolazione civile : la violenza chiamerà altra violenza. Noi osserviamo la situazione del Libano dal particolarissimo punto di vista dei profughi siriani, ci sembra che la crisi istituzionale riguardi davvero tutte le istituzioni, a volte anche le Chiese, mentre c’è una società civile libanese vivace e creativa; risulta molto difficile però capire come potrà strutturarsi e trovare rappresentanza. O se, come altri, arrendersi ed emigrare.

 

Da quanto tempo, con quali progetti e quanti operatori è presente nel Paese la comunità Papa Giovanni XXIII?

Siamo presenti dal 2013, con volontari, diverse decine che si sono alternati nel vivere in alcuni campi profughi nel nord del paese. Vivendo nelle tende abbiamo cercato di costruire rapporti tra loro e i libanesi, di accompagnarli in ospedale e a cercare aiuti, cercando di evitare che venissero arrestati (data la mancanza di documenti). Come dicono i nostri amici siriani, abbiamo pianto e riso insieme. Nel 2016 abbiamo dato inizio a corridoi umanitari, insieme a Sant’Egidio e Chiesa Valdese, portando in Itali circa 2.000 persone. Sempre insieme ai siriani abbiamo scritto e stiamo diffondendo una “Proposta di pace” che prevede di creare le condizioni per il ritorno nelle proprie case. Tutto questo è nato dal vivere insieme.

 

L’operazione Colomba, tra utopia e profezia. Qual è il significato di essere oggi “operatori di pace” in un Paese perennemente in guerra e dove hanno ripreso in questi giorni a risuonare i colpi di mortaio al confine con Israele?

Vivendo tra le tende insieme ai profughi abbiamo imparato a valutare le varie azioni “di pace” dall’impatto che hanno su loro, le persone più povere. Come in guerra muoiono e subiscono violenza le persone più indifese, così nella costruzione della pace cerchiamo di rovesciare quest’ottica: cosa darà loro libertà, dignità e futuro? E con quale forza sfidare una situazione così violenta, bloccata, impossibile da affrontare. Vi lasciamo queste domande che sono le nostre e vi chiediamo un aiuto in questa sfida così dura e vitale.

Enrico Vendrame

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