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"Il futuro che vogliamo"

A Limena 150 personalità del mondo cattolico firmano un documento

"Il futuro che vogliamo"

Tra i firmatari 22 preti, 7 religiosi, 1 diacono permanente. Esponenti di associazioni e movimenti ecclesiali, sindacalisti, politici, intellettuali, insegnanti, imprenditori. Un arcobaleno di presenze che dice di una storia radicata e di una voglia di discutere che non è venuta meno, seguendo quel metodo del discernimento iscritto nella storia delle nostre chiese, dai convegni di Aquileia al convegno nazionale di Firenze.
Primo invito: ripuliamo il linguaggio da termini come populismi o sovranismo. Perché fare di tutta l’erba un fasci(sm)o non aiuta a cogliere la complessità dei fenomeni in atto.
Secondo invito: non sottovalutiamo né demonizziamo le paure che sentiamo crescere tra la gente. In fondo viviamo un’epoca di cambiamenti così veloci e così radicali che non aver paura sarebbe da sciocchi. Il problema allora è come farsi carico di una società che ha visto minate prospettive che dava per scontate sotto l’onda d’urto della globalizzazione, della rivoluzione tecnologica, dei flussi migratori.
Terzo invito: non possiamo ridurre la sfida a un’elezione da vincere o a un avversario politico da sconfiggere. Perché i cambiamenti del quadro politico sono figli di un cambiamento molto più profondo della cultura di un popolo. E su quella intervieni solo se hai da proporre soluzioni ai problemi e una visione di speranza per il futuro.
Quarto invito: la Chiesa - ma forse sarebbe più opportuno dire i cattolici e ancora meglio i cristiani - non può rimanere in silenzio. Non può farlo se vuole essere fedele al mandato conciliare di coniugare fede e vita. Non può farlo perché assistiamo anche a un uso politico, spesso spregiudicato e sempre pericoloso, della religione da parte di tanti nuovi leader rampanti. E non può farlo perché la storia del Nordest è intrisa di cristianesimo. Chiamarsi fuori, sarebbe un peccato d’omissione.
Tanti inviti, tante domande a cui offrire una risposta che vada oltre l’impegno individuale.

La giornata di Limena
Convergono tutte nel centro parrocchiale di Limena, sabato scorso, in una sala che è un ideale mosaico del cattolicesimo veneto deciso a riprendere a tessere il filo dell’impegno, dopo anni segnati dalla fatica di parlare di politica - “perché altrimenti ci dividiamo” - ma anche dal progressivo venir meno di luoghi in cui farlo, fino al “prevalere di un afasico silenzio”.
Stefano Bertin, già presidente dell’Azione cattolica e per dieci anni vicepresidente del consiglio pastorale diocesano, voce autorevole e ascoltata nella chiesa padovana, apre i lavori con una constatazione che, sottolinea, “non è un’accusa ma un’autocritica”. Accanto a lui ci sono Alessandro Castegnaro, che dirige l’Osservatorio socio-religioso del Triveneto, Giampiero Dalla Zuanna, demografo e già senatore, Elisabetta Visentin, don Bruno Baratto della diocesi di Treviso.
Di fronte a loro, una buona parte dei 150 firmatari del documento che viene presentato e molti che lo faranno alla fine della mattina. A raccogliere l’appello, o quantomeno a sentirlo così importante da dedicargli un sabato mattina, ci sono vicari generali presenti e passati delle diocesi, parroci, sacerdoti che hanno prestato servizio in Caritas, religiose, dirigenti di sigle storiche del cattolicesimo sociale come le Acli, esponenti dell’Azione cattolica, dei focolarini, del Meic. E ancora sindacalisti, politici, intellettuali, insegnanti, imprenditori. Ognuno firma e partecipa a titolo personale, ma certo l’arcobaleno di presenze dice di una storia radicata e di una voglia di discutere, che non è venuta meno, con uno stile che coniuga “l’arte difficile dell’ascolto e del dialogo”, secondo quel metodo del discernimento, che è anch’esso iscritto nella storia delle nostre chiese, dai convegni triveneti di Aquileia al convegno nazionale di Firenze.

Le ragioni della preoccupazione
«La domanda iniziale - ricorda Alessandro Castegnaro - è stata: cosa sta succedendo? Come dobbiamo interpretarlo? Che antenne dobbiamo sviluppare per non scoprire a posteriori di non avere capito? Perché siamo a un punto di svolta, talmente decisivo da mettere in discussione le tradizionali divisioni dei compiti, da impedire che ci si possa nascondere dietro al “non è compito nostro”».
I fattori di preoccupazione che il Forum di Limena mette a fuoco sono due. Il primo è l’affermarsi di un atteggiamento di chiusura, che non riguarda solo l’atteggiamento nei confronti di immigrati e profughi ma si allarga all’economia, alla cultura, alla diffidenza nei confronti dei poteri sovranazionali. Il secondo è la crisi evidente dei sistemi democratici, con tutti i rischi di una deriva autoritaria. Perché di fronte all’impoverimento, ai cambiamenti demografici, alla sensazione che “tanto la mia opinione non conta nulla”, che a governare sono le élite e le multinazionali, la tentazione dell’uomo forte, delle risposte semplici e rassicuranti, di un bel muro ad allontanare tutto e tutti dal recinto di casa nostra, affascina e convince. Oggi come ieri.

A cosa aggrapparsi
Le risposte sono da costruire. Ma alcuni punti fermi a Limena vengono ribaditi senza timidezze. E il primo è l’Europa, quell’Europa le cui stelle campeggiano nel logo scelto dal Forum a contornare il leone di san Marco e il vangelo. Un’Europa che, ricorda Giampiero Dalla Zuanna, ha il 7 per cento della popolazione ma la metà del welfare del mondo: «Un posto ricco ma che ha anche deciso di usare una parte importante della sua ricchezza per tutelare le persone più deboli». Un’Europa che non deve fermarsi alla moneta unica ma proseguire sulla strada della cessione di sovranità da parte degli stati nazionali, e dirlo oggi è un grande atto di coraggio. L’Europa insomma come antidoto a un «ripiegamento nazionalistico rischioso, pericoloso, imprudente. Rischioso perché fa emergere antiche divisioni, pericoloso perché porta all’impoverimento generale, imprudente perché ci mette nelle mani delle grandi potenze che dal punto di vista demografico e delle potenzialità future ci sovrastano».
Un secondo punto fermo lo sottolinea don Bruno Baratto ed è il valore dei corpi intermedi. Che non sono espressione da politologi ma esperienza quotidiana: associazioni di volontariato, cooperative, parrocchie, famiglie. È questa articolazione complessa, in cui sperimentiamo il bisogno e la bellezza del rapporto con gli altri, che può aiutare a stemperare paure, a non farci sentire isolati e indifesi, a costruire percorsi di autentica cittadinanza. E quando si crea senso di appartenenza, quando la fraternità è concretezza quotidiana, aumenta anche la sicurezza. Quella vera, non quella di chi si blinda in casa con un fucile.

Un cammino aperto
Ma queste sono solo suggestioni, a partire dalle quali proseguire nel cammino. Più che i contenuti, per ora conta lo stile e l’obiettivo. «Oggi - ricorda Elisabetta Visentin - nelle nostre chiese corriamo il rischio di rinchiuderci nei problemi interni, senza ascoltare e rispondere agli appelli che vengono dalla storia. Certo, il mondo cattolico è plurale, anche nelle opzioni politiche. Ma proprio per questo dobbiamo ripartire da un confronto vero, argomentato da conoscenze, dati, verità oggettive. Diciamo di no al finto dialogo urlato, no alle posizioni “di pancia”, chiediamo una comunicazione non ostile, linguaggi sempre rispettosi, mai discriminatori. Le opinioni diverse devono saper stare insieme, influenzandosi e migliorandosi reciprocamente. Al centro però ci devono essere alcuni principi evangelici essenziali, che oggi non sono più scontati: il rispetto della persona umana in quanto tale, con diritti inalienabili; l’uguaglianza di tutti gli esseri umani; la dignità dell’uomo; l’opzione preferenziale per i più poveri, i più deboli, gli ultimi».
Il dado è tratto. Chi avrà la voglia e il coraggio di accogliere la sfida?
Guglielmo Frezza

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