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Prendere coscienza che questi problemi esistono

La riflessione di Chiara Andreola, autrice di "Fame d'amore", sui disturbi del comportamento alimentare

Prendere coscienza che questi problemi esistono

Ammetto che mi fa quasi specie tornare a scrivere di dca (disturbi del comportamento alimentare) dopo tanto tempo, ossia dopo la pubblicazione del mio libro “Fame d’amore” nel 2015. In realtà si tratta di pochi anni, ma che appaiono lunghissimi. Ci sono stati di mezzo molti cambiamenti sotto il profilo personale e professionale, nonché soprattutto una figlia: una grazia che non avrei potuto nemmeno immaginare durante il periodo dei dca. Senza contare che, anche nel periodo appena successivo all’uscita del libro, mi faceva specie sentirmi chiedere consigli su come affrontare questi disturbi, o su come meglio sostenere chi ne soffre: "Non lo sanno con precisione fior fior di medici dopo anni di studi, e lo venite a chiedere a me?", mi veniva da domandare.

Tuttavia, alcune semplici considerazioni su questi disturbi e su come comportarsi mi sento di farle: naturalmente in base alla mia esperienza, diversa da quella di altri.

In primo luogo, ho sempre sostenuto il concetto di coerenza. Genitori ed educatori in genere sanno bene che la coerenza è uno dei principi fondanti nella formazione di un bambino: non si può dire a un piccolo di fare o non fare qualcosa, e poi comportarsi in maniera contraria. Allo stesso modo, non si può dire a chi rifiuta il cibo di mangiare di più se poi viviamo in un mondo in cui è pervasiva la pubblicità dei cibi dietetici, e allo stesso tempo si inneggia alla buona (e calorica) cucina in mille programmi televisivi – con buona pace di chi, viceversa, soffre di bulimia o "binge eating" (alimentazione incontrollata). Una società schizofrenica dal punto di vista alimentare non potrà che passare messaggi contraddittori a chi sta cercando di fare pace con il cibo, o semplicemente raggiungere un salutare equilibrio. Credo che dovremmo chiederci che rapporto abbiamo con il cibo come comunità e credo che questo sia la radice per affrontare meglio questi disturbi.

In secondo luogo, lo stare vicino a chi soffre di questi disturbi senza giudicare chi mangia solo un’insalata “perché è anoressica”, o viceversa si abbuffa “perché poi diventa tutta ciccia e brufoli”; e senza incasellare in schemi precostituiti, dato che la variabilità di questi disturbi è davvero molto ampia. Ho sempre trovato importante che qualcuno mangiasse o non mangiasse insieme a me, accompagnandomi in questo momento difficile, fino a quando mi fossi sentita più serena e fossi quindi riuscita a mettere nel piatto la giusta quantità di cibo. Se un invito a cena è occasione di panico, meglio un invito ad una passeggiata, e magari in un momento di serenità un gelato da asporto ci scapperà: da mangiare insieme, naturalmente, come occasione di socialità. Così come può essere importante dire “mangio con te, le stesse cose che mangi tu” a chi magari sta vivendo il delicato momento di una dieta che gli o le consenta di assumere la giusta quantità di cibo (che sia più o meno di ciò che era abitato o abitata ad assumere prima).

Al di là di questo, credo sia necessario prendere coscienza come collettività che questi disturbi esistono, che sono più diffusi di quanto crediamo, e in che cosa consistono. Credo che per me tutto sarebbe stato molto più facile se mi fossi sentita libera di dire che cosa mi faceva soffrire rispetto al cibo, perché sufficientemente fiduciosa che dall’altra parte ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe capito. Forse è proprio questa la cosa più importante.

Chiara Andreola

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