A PROPOSITO DI FINE VITA
L'editoriale del vescovo Corrado Pizziolo.
La recente sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato impone una riflessione sulla dignità della persona e sulla necessità di sottrarre la vita a qualsiasi considerazione di tipo utilitaristico. La persona è l’unico essere esistente con dignità di soggetto, non di oggetto: la vita, che egli è (e non semplicemente “ha”), partecipa di questa non “oggettivabilità”. Il soggetto è custode e affidatario della vita, non padrone ed arbitro. Questa consapevolezza è rafforzata, per i credenti, dall’origine e dal dono divino della vita. «La persona è il diritto sussistente », diceva Rosmini: la vita è l’anima, il principio attivo di questo diritto. C’è pertanto un diritto “alla” vita, alla sua tutela e promozione. Non un diritto “sulla” vita. Di qui la sua indisponibilità e inviolabilità anche per il soggetto, che delegittima ogni diritto di morire. Verso le persone non si ha il potere che si esercita sulle cose. È qui - in questo riconoscimento della dignità propria e unica della persona - lo snodo che sancisce l’impossibilità di ogni diritto a morire. Altrimenti la vita si risolve in un bene di consumo: un bene fruibile, nulla di più, che vale finché rende e appaga, poi lo si elimina. Lo ha denunciato Papa Francesco nel discorso alla delegazione dell’Istituto Dignitatis Humanae: «Purtroppo nella nostra epoca, così ricca di tante conquiste e speranze, non mancano poteri e forze che finiscono per produrre una cultura dello scarto; e questa tende a divenire mentalità comune.
Le vittime di tale cultura sono proprio gli esseri umani più deboli e fragili – i nascituri, i più poveri, i vecchi malati, i disabili gravi… –, che rischiano di essere “scartati”, espulsi da un ingranaggio che dev’essere efficiente a tutti i costi. Questo falso modello di uomo e di società attua un ateismo pratico negando di fatto la Parola di Dio che dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” (Gen 1,26)… La forza di questa Parola pone dei limiti a chiunque voglia rendersi egemone prevaricando i diritti e la dignità altrui. Nel medesimo tempo, dona speranza e consolazione a chi non è in grado di difendersi, a chi non dispone di mezzi intellettuali e pratici per affermare il valore della propria sofferenza, dei propri diritti, della propria vita». Disconoscere la differenza umana, riducendo la vita della persona a valore di cosa e di uso di cui alla fine potersi disfare, non rappresenta una conquista, ma una regressione di civiltà. Oggi viene amplificato il principio di autodeterminazione, spingendolo fino al potere sulla vita, con conseguente avvilimento del principio di umanità. In realtà, un’autodeterminazione del soggetto come puro potere di decisione, sganciato dall’ordine del bene e dei suoi obblighi, è un “feticcio” che narcotizza la libertà, abbandonando l’individuo alla solitudine. Senza fondamento nel bene e nella verità, la libertà umana viene risucchiata in un “desiderio di morte” che estingue il gusto della vita. Tanto più quando questa è segnata dalla fragilità, dalla malattia, dalla disabilità, cui non si è capaci di riconoscere e dare un senso. A quel punto, la vita stessa diventa insopportabile. Le virtù di fiducia, di prossimità, di partecipazione, come l’empatia, la compassione, la consolazione dispongono e inducono ad entrare nella sofferenza e nella solitudine dell’altro, con-dividerla, confortarla e far percepire, anche nell’infermità, la bontà e la bellezza della vita. Tali virtù sono l’unico argine a quella “noia di vivere” che alligna in una cultura che perde risorse di significati, valori e orizzonti di vita: una cultura debole e arrendevole, che all’avvilimento della sofferenza e della malattia non sa proporre di più e meglio che il diritto a morire, rivendicato come indice di progresso e di modernità. Dire che non c’è un diritto a morire non significa perseguire la vita biologica ad ogni costo. C’è un diritto “a morire bene”. Tutti dobbiamo morire, ma non è detto che dobbiamo morire male. C’è un diritto “a morire con dignità” sia umana sia cristiana, volto a umanizzare il morire, anzitutto custodendo la relazione empatica e inoltre attraverso l’ausilio della terapia del dolore e la rinuncia a mezzi di cura straordinari e sproporzionati. Rinunciare a questi non vuol dire sopprimere la vita, ma accogliere e vivere la morte e il morire come l’ultimo atto della vita terrena.
+ Corrado, vescovo
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