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Il vescovo Corrado torna sul tema profughi: "Ma i trevigiani sono, duri, egoisti e inospitali?"

Editoriale del vescovo nel numero de L'Azione di questa settimana.

Il vescovo Corrado torna sul tema profughi: "Ma i trevigiani sono, duri, egoisti e inospitali?"

A qualche giorno di distanza, desidero esprimere alcune considerazioni sull’accoglienza che ha avuto la Nota sui profughi apparsa nell’ultimo numero dell’Azione e della Vita del popolo a firma mia e del vescovo di Treviso, mons. Agostino Gardin. Sono riflessioni che vorrei offrire soprattutto all’attenzione di tante persone delle nostre parrocchie, gruppi e movimenti, incontrate anche nella mia visita pastorale, che condividono con me e con i miei carissimi sacerdoti e diaconi la corresponsabilità della missione di dire il vangelo di Gesù oggi nel nostro territorio.

1. Una prima riflessione è questa: quando si dice qualcosa che tocca profondamente la sensibilità delle persone, è abbastanza facile che scatti la classica operazione che tende a svuotare l’affermazione che viene fatta sviando il discorso: tu indichi la luna, l’altro guarda il dito. Anche in questa circostanza, molte reazioni, in realtà, non sono entrate in merito a ciò che, come vescovi, abbiamo detto, ma si sono fermate e dire ciò che la Chiesa, i vescovi, i seminari dovrebbero fare. In altre parole: “Perché non lo fate voi, visto che siete così bravi a parlare?”. Dimenticando che molta parte dell’accoglienza riguardo ai profughi viene fatta proprio da realtà ecclesiastiche. E nello stesso tempo dimostrando di non aver letto il testo se non nelle semplificazioni date dai mass-media. Il testo, infatti, non dice cosa devono fare gli altri, ma pone degli interrogativi a noi stessi come battezzati e alle comunità cristiane.

2. La seconda riflessione che mi è venuta è ben più importante. Di fronte alle molte reazioni di rifiuto, mi sono chiesto: “Ma siamo diventati proprio così, noi trevigiani: duri, egoisti e inospitali?”.

A casa mia, quando ero piccolo, in quel di Zero Branco (dove sicuramente non si era ricchi) passavano ogni giorno i cosiddetti poaréti. Sempre – dico sempre – trovavano rispetto, accoglienza, risposta, almeno parziale, ai loro bisogni. Ed era così non solo da noi, ma in tutte le altre famiglie. Abbiamo perso queste qualità umane e cristiane?

Penso di no. E mi sento confortato, in questo, dal vedere tutti coloro che, nella nostra provincia, sono impegnati sul fronte dell’accoglienza, della solidarietà fattiva e dell’impegno a favore dei profughi richiedenti asilo. E sono tanti pure questi, ma, quasi sempre, operano senza farsi sentire. Perché allora la tentazione del rifiuto? Sono convinto che di fronte al tremendo fatto della immigrazione siamo stati sopraffatti soprattutto dalla paura, anche a causa di chi ha speculato sul fenomeno. Abbiamo avuto paura di perdere la tranquillità e la sicurezza che nascono dal fatto di condividere le stesse modalità e abitudini di vita.

Accogliere gente diversa richiede sempre uno sforzo notevole, tuttavia dobbiamo farlo quando si tratta di persone che cercano ciò che ogni uomo e donna ha diritto di avere: sicurezza di vita, libertà, beni sufficienti per vivere. Rifiutare di fare questo sforzo vuol dire perdere le nostre belle qualità di veneti, sempre molto accoglienti e solidali e, se si è cristiani, entrare in contraddizione con la propria fede. È proprio questo il pericolo che abbiamo voluto evidenziare con la nostra Nota.

3. Una terza cosa che mi sembra giusto ricordare riguarda l’invito, ripetuto quasi come un ritornello, che i vescovi mettano i profughi nei loro ambienti, in particolare nei seminari che sono vuoti. È giusto che si sappia non solo che i seminari non sono vuoti, ma anche, ad esempio, che il seminario di Vittorio Veneto ha dato gran parte degli ambienti che non erano occupati, proprio alla Caritas, che – guarda caso – svolge un compito di accoglienza certamente verso i poaréti foresti, ma anche verso i poaréti nostrani.

4. Una domanda che ho trovato pertinente, fra quelle circolate in questi giorni, è quella così formulata: “Ma la Chiesa è sicura di aver fatto tutto quello che poteva fare?”. È una domanda sicuramente legittima, anzi doverosa. Ma era proprio questa la domanda di fondo che emergeva nel testo della Nota. Una domanda rivolta anzitutto a noi battezzati e alle comunità cristiane, cioè alla Chiesa: “Stiamo facendo realmente tutto quello che possiamo?”. È una domanda seria e impegnativa che deve trovarci tutti pronti a lasciarci interrogare, a cominciare da me, vescovo, fino all’ultimo battezzato. Come ho già avuto modo di dire, la Nota che abbiamo diffuso non intendeva porsi come giudizio e insegnamento verso gli altri, ma come richiamo – anzitutto a noi stessi battezzati, ma anche a ogni uomo di buona volontà – di quegli atteggiamenti e criteri di umanità e di vangelo su cui, prima o poi, ciascuno è chiamato a interrogarsi. La cosa che mi preoccupa di più non è che ci siano opinioni diverse. È normale in una società democratica e, inoltre, di fronte ad una situazione così complessa. Ciò che mi meraviglia è trovare, da parte di tante persone, un rifiuto pregiudiziale a prendere in considerazione le riflessioni che proponiamo. In questo senso sono convinto che se, ad esempio, ospitassimo dei profughi in seminario, ci sarebbero sicuramente molti che, comunque, contesterebbero la loro presenza, come puntualmente è capitato per i profughi ospitati dal Ceis a Serravalle o per quelli accolti nella casa Toniolo di Conegliano. A nulla è valsa la risposta del Direttore: «Ma se dite sempre che sono i vescovi che devono prendersi questa gente nei loro ambienti, adesso protestate perché lo fanno?». È proprio la presenza dei profughi ciò che tante persone non vogliono. Come duemila anni fa: “Non c’era posto per loro nell’alloggio”.

Concludendo, mi rendo ben conto che il problema è molto complesso e difficile e che non si risolve soltanto con l’accoglienza. Proprio per questo non pretendiamo di dettare soluzioni globali. Chiediamo soltanto che non ci sia un atteggiamento di rifiuto pregiudiziale che si limita a dire: “Non è affar nostro. Si arrangino. Ci pensi qualche altro!” e così via, ma ci siano cuori capaci di chiedersi: “Che cosa concretamente possiamo fare?”.

Che poi non si riesca a risolvere tutte le questioni, ci può stare: tra il tutto e il nulla ci sono tante possibilità intermedie. Proprio qualche giorno fa, nell’Ufficio delle letture, la Liturgia proponeva un testo molto provocante di san Basilio Magno (vissuto 1700 anni fa) che, parlando alla gente del tempo, diceva: «Quanto dovresti essere contento di non dover tu battere alla porta altrui, ma gli altri alle tue! E invece sei intrattabile e inabbordabile. Eviti di incontrarti con chi ti potrebbe chiedere qualche spicciolo. Tu non conosci che una frase: “Non ho nulla e non posso dar nulla, perché sono nullatenente”. In effetti tu sei veramente povero, anzi privo di ogni vero bene. Sei povero di amore, povero di umanità, povero di fede in Dio, povero di speranza nelle realtà eterne».

Credo che nessuno possa rimanere indifferente di fronte a queste parole di uno dei più grandi Padri della Chiesa. Io certamente no. Penso pure che san Basilio abbia dovuto subire anche molte critiche per queste parole, ma certamente non si lasciò impaurire da esse. Altrimenti non sarebbe santo. Salutandovi e augurando a tutti un sereno tempo di riposo, vi ricordo al Signore e vi benedico.

+ Corrado, vescovo

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