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Il viaggio del Papa in Armenia: dalla verità la riconciliazione

L'editoriale del direttore don Alessio Magoga.

Il viaggio del Papa in Armenia: dalla verità la riconciliazione

"La verità vi farà liberi" dice Gesù ai suoi discepoli. Senza verità, non c’è libertà. Non c’è riconciliazione, né pace vera. Lo constatiamo nelle nostre storie personali, familiari, comunitarie... Lì dove restano nodi irrisolti e dove la verità non emerge, permangono incomprensioni latenti e conflitti nascosti che inevitabilmente esplodono alla prima occasione. Dire la verità allora è un atto di coraggio che fa affiorare la realtà delle cose - anche se dolorose - e permette di prendere in mano la propria storia e di scioglierne i nodi. Molto istruttiva è l’esperienza sudafricana della “Commissione per la verità e la riconciliazione”: un tribunale straordinario istituito dopo la fine dell’apartheid, che aveva lo scopo di mettere faccia a faccia vittime e carnefici perché ognuno narrasse il proprio punto di vista e si arrivasse così al “perdono” e alla riconciliazione tra oppressi ed oppressori.

Con questo atteggiamento, improntato alla volontà di verità e di riconciliazione, ha vissuto papa Francesco il suo recente viaggio in Armenia: la prima Nazione ad accogliere il cristianesimo grazie al suo sovrano agli inizi del IV secolo. L’Armenia ha mantenuto viva sino ad oggi la sua ricca fede in Cristo, nonostante abbia dovuto portare delle croci pesanti: delle “croci di pietra”! Alcune espressioni del papa hanno suscitato, per la seconda volta, un’aspra reazione da parte del governo turco, il quale ha minacciato di ritirare l’ambasciatore dal Vaticano e ha parlato di “mentalità da crociate”. 

Sotto accusa è una parola di Bergoglio – “genocidio” –, utilizzata per indicare il massacro di più di un milione di armeni perpetrato negli anni 1915-1916 dai turchi dell’Impero Ottomano. Non ci furono solo morti: vi fu anche una “diaspora”, cioè una “dispersione” degli armeni che a causa del genocidio furono costretti a lasciare la Turchia e a cercare fortuna in altre parti del mondo. Ma perché una semplice parola può provocare così grande irritazione? “Genocidio” significa pianificazione dello sterminio sistematico di un popolo indifeso da parte di un centro di potere. Si parla di “genocidio” – ad esempio – per indicare il massacro degli ebrei escogitato dai nazisti. Quanto è successo agli armeni, in effetti, ha davvero tanti punti in comune con la storia del popolo ebraico, eccetto il condiviso riconoscimento da parte della comunità civile. Secondo alcuni studiosi, Hitler sapeva del genocidio armeno – il primo del XX secolo – e lo ha utilizzato per giustificare il suo progetto di distruzione del popolo ebraico. Riconoscere che si è trattato di genocidio è molto importante per il popolo armeno, perché così finalmente potrà riappropriarsi di un periodo tremendo del proprio passato: sarà condiviso, riconosciuto e portato alla luce quello che gli stessi armeni chiamano – con triste pudore – il “Grande Male”.

Questa dolorosa verità è stata trascurata a lungo anche dagli storici nostrani: quali manuali di storia nei decenni scorsi – persino nella scuola italiana – si soffermavano adeguatamente su questo tragico evento? Dal riconoscimento che si è trattato di un vero e proprio genocidio può venire un gran bene anche per la Turchia, che ancora oggi con caparbietà cerca di oscurare, minimizzare e relativizzare un fatto oggettivo e ampiamente documentato. Ciò rappresenterebbe per la Turchia un grosso passo in avanti nella direzione di una visione del mondo più affine a quella europea: più moderna, più democratica, più laica e meno nazionalista. Infine, l’accertamento definitivo della verità storica sarebbe un guadagno anche per l’Europa e per le grandi potenze internazionali, che – come ha detto papa Francesco – “in questo genocidio come negli altri due [quello di Hitler e quello di Stalin, ndr] guardavano dall’altra parte”. Anch’esse sono perciò costrette a fare i conti con il proprio passato e con le proprie responsabilità perché in futuro ciò non si ripeta. Far finta di niente, insabbiare la storia è un’operazione colpevole che non porta alla pace. Meglio rischiare coraggiosamente – come ha fatto il Papa – una momentanea e dura reazione piuttosto che, per comodità, tacere e rendersi conniventi col male. Alla fine la verità emerge sempre: è un dato di fatto. Si tratta di aiutarla ad affiorare, mettendosi dalla sua parte ed acconsentendo al suo processo benefico di riconciliazione.

Alessio Magoga

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