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Primo maggio: cosa c'è da festeggiare?

L'editoriale del numero de L'Azione in edicola.

Primo maggio: cosa c'è da festeggiare?

In pensione? La mia generazione ci andrà a 75 anni, almeno stando alle recenti parole di Tito Boeri, attuale presidente dell’Inps. A dire il vero noi preti eravamo già preparati ad un “lavoro” usque ad mortem, ma per gli altri forse il colpo è stato duro. Battute a parte, la notizia mette il dito nella piaga, assai purulenta di questi tempi: la pensione è sempre più un miraggio. Paradossalmente, sono invece ancora numerosi i giovani 20- 30enni che faticano a trovare un posto di lavoro. Si parla, infatti, di una quota nazionale attorno al 26% dei cosiddetti neet (giovani inattivi che non studiano né lavorano), a fronte di una media europea del 15% (dati Ocse 2015). Ciò significa che sempre più tardi i giovani hanno la possibilità di costruirsi una vita, una famiglia, avere delle sicurezze, mentre i più anziani devono continuare a tirare la carretta per mantenere gli altri. Pregando Dio di non rimanere senza lavoro a tarda età: altrimenti, chi li assume più? Il lavoro, dunque, sembra oggi generare più precarietà che ricchezza. E nonostante Jobs Act e compagnia, che pure hanno portato a dei risultati, non è che il problema sia stato risolto. Ad esempio, il sistema dei voucher, una modalità oggi consolidata di lavoro temporaneo, se da un lato rappresenta un agevole strumento per abbattere la disoccupazione e il lavoro nero, dall’altro rischia di portare ad una cristallizzazione (e uno sfruttamento!) del lavoro precario, senza favorire un’evoluzione verso un impiego più stabile e continuativo. Ammesso che il lavoro ci sia.

Eh già, perché c’è un’urgenza ancora più a monte, che non possiamo ignorare: quella di generare nuovo lavoro, in un’epoca ancora segnata dalla crisi economica. Lo ricordano i vescovi della Commissione episcopale della Cei per i problemi sociali, in una Nota pubblicata in occasione del 1º maggio: “Il dato prevalente è che il lavoro in Italia manca”. Di conseguenza il rischio è quello di assolutizzare il lavoro, a tal punto da “appiattire il senso dell’esistenza”: in tal modo perde di importanza la qualità del lavoro e la dignità di chi lavora, cosicché l’unica cosa che conta – pensano i più – è riuscire a portare a casa un po’ di soldi per vivere. O sopravvivere. Ebbene, in un tale contesto per molti aspetti problematico, ha ancora senso continuare a celebrare la “festa” del lavoro? Non suona forse come una solenne presa in giro? Un lavoro segnato da tanti nodi e contraddizioni è ancora un valore basilare capace di costruire la società, così come ci ricorda il primo articolo della nostra Costituzione? La domanda è retorica, ma la risposta non può sempre essere data per scontata. Celebrare la festa del 1º maggio è anzitutto un dovere di memoria verso il passato, per poter meglio abitare il presente. È ricordare quei decenni di storia, di impegno sindacale, di sudore e di sangue, che ci hanno permesso di acquisire ciò che oggi sembra necessario ribadire: il primato del lavoro sui beni, e della persona sul lavoro (cfr. enciclica Laborem exercens), giacché è soltanto in funzione della persona che il lavoro può essere compreso, affinché esso non generi nuove forme di idolatria e di schiavitù. O, per dirla con il testo della citata Nota dei vescovi, è importante riscoprire il lavoro come “vocazione”, ossia come “senso alto di un impegno che va anche oltre il suo risultato economico, per diventare edificazione del mondo, della società, della vita”. A questo abbiamo bisogno di educarci e di educare le giovani generazioni, oltre ogni mera logica dei profitti. Comunque sia, segni positivi ce ne sono. Basta saperli cogliere. E sono rappresentati da chi, pur nella crisi, non si è fermato, ma – avendone avuto la possibilità – ha saputo inventarsi un lavoro con creatività, aprendosi all’innovazione e alla cooperazione, con attenzione consapevole verso il bene comune e quello dei lavoratori coinvolti. In tal senso, celebrare il 1º maggio significa aiutarci reciprocamente a mettere in luce non soltanto i passi ancora da compiere, ma i segni di un cambiamento di paradigma lavorativo, sostenuto appunto da criteri etici e lungimiranza. Certo, non sono sufficienti queste riflessioni a risolverci ogni problema o a far finta che tutto vada bene. Ma tanto ci basta per trovare il motivo per continuare a riconoscere il lavoro come un valore: non come fardello umiliante, bensì come tratto distintivo del nostro essere “umani”. Per questo ci si è spesi nel passato; per questo vale la pena continuare a spenderci oggi. Ricordandoci che, senza lavoro o soltanto con il lavoro, non c’è futuro, qualora accettassimo di mettere tra parentesi la dignità di essere persone.

Don Andrea Forest
delegato vescovile per la Pastorale Sociale e del Lavoro

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