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RISPETTIAMO CHI SERVE LO STATO NON SOLTANTO QUANDO MUORE

L'editoriale del direttore don Alessio Magoga.

RISPETTIAMO CHI SERVE LO STATO NON SOLTANTO QUANDO MUORE

Ci ricordiamo delle nostre forze dell’ordine solo quando avviene qualcosa di straordinario o di tragico. Come nella notte del 25 luglio, quando a Roma il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega è stato accoltellato a morte – ormai sembra non ci siano più dubbi – da due giovani statunitensi. Oppure, come lo scorso 4 ottobre, quando in Questura a Trieste gli agenti di Polizia Matteo Demenego e Pierluigi Rotta sono stati uccisi in un’assurda sparatoria, che ha visto per protagonista un giovane sudamericano – a quanto è dato di sapere fino ad oggi – con problemi psichici. Sono solo i due casi più recenti che hanno scosso tutti noi e l’intera opinione. Andando a ritroso, tuttavia, quanti altri hanno pagato col sangue la fedeltà allo Stato e al proprio dovere per il bene della collettività? A volte, dopo la morte, sono celebrati in modo solenne; in altri casi se ne fa ricordo più sommessamente, se non addirittura nel silenzio generale: “In fin dei conti – sentenzia qualche benpensante – è il loro lavoro e sanno che cosa rischiano!”. Non sempre la società, che in molti casi ha bisogno ed invoca l’intervento delle forze dell’ordine, esprime gratitudine per il loro non facile lavoro. In generale, a dire il vero, è la cultura del “grazie” che sta venendo a mancare un po’ su tutti i fronti. Anche un certo senso di rispetto nei confronti dell’autorità – i genitori, gli insegnanti, gli adulti in genere… – è stato messo in crisi, con degli effetti anche sul modo di vedere chi porta una divisa.

Non ha giovato, in questi anni, la condizione purtroppo divenuta strutturale della giustizia italiana che – per una pluralità di motivi – richiede tempi biblici per arrivare ad emettere una sentenza e troppo spesso non garantisce la certezza della pena: si vanifica così il duro e rischioso impegno delle forze dell’ordine, corrodendone alla lunga la motivazione. Non hanno giovato nemmeno alcuni episodi che hanno visto coinvolti alcuni uomini dello Stato – penso ai fatti del G7 di Genova o al più recente caso Cucchi – che hanno instillato nell’opinione pubblica (o almeno in una parte di essa) il sospetto che non ci si possa fidare nemmeno delle forze dell’ordine. Ma se ti avvicini un po’ di più a chi indossa la divisa di poliziotto, di carabiniere o di guardia carceraria, scopri che hai dinanzi uomini e donne, con una famiglia, con delle relazioni, con sogni e progetti, con fatiche e timori di ognuno di noi. Si tratta di persone come me e te, con un cuore di carne. E così capisci che il vicebrigadiere Cerciello Rega si era sposato appena un mese prima di essere ucciso e che, in qualità di barelliere, accompagnava i malati a Lourdes, mentre il martedì, alla stazione Termini di Roma, portava da mangiare ai bisognosi. Oppure vieni a sapere che, solo una settimana prima di essere ammazzati, Rotta e Demenego avevano salvato un quindicenne che voleva suicidarsi e che in un video, postato su Facebook la sera prima della sparatoria, i due poliziotti invitavano scherzosamente i cittadini di Trieste a stare tranquilli perché “la volante 2 era tornata”. Episodi come questi, in cui dei servitori dello Stato perdono la vita, ci chiedono di guardare con maggiore stima, rispetto e prossimità quanti svolgono questo complesso lavoro, nella maggior parte dei casi vissuto come un autentico servizio per il bene della società, per il bene della nazione. Al tempo stesso, ci domandano maggiore responsabilità per il bene comune, perché la giustizia di un Paese non può essere delegata solo ad alcuni ma deve essere impegno di tutti, perché ad uccidere i cittadini onesti e i servitori dello Stato contribuiscono anche il silenzio, le omissioni e il disinteresse dei “buoni”.

Alessio Magoga

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