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Riforme strutturali ma giudiziose

L'editoriale del direttore de L'Azione don Giampiero Moret

Riforme strutturali ma giudiziose

Quando si parla delle riforme necessarie per la salvezza del nostro Paese, si usa sempre un aggettivo: le riforme devono essere “strutturali”. Lo ha affermato il presidente Napolitano nel suo messaggio per la festa della Repubblica. Era stato preceduto il giorno prima dal governatore della Banca d’Italia, Visco. Lo ha ripetuto la Commissione europea qualche giorno fa nelle raccomandazioni che hanno fatto seguito alla valutazione delle nostre riforme. Riformare in maniera strutturale vuol dire toccare qualcosa di essenziale della vita sociale. Al governo Letta era stato rimproverato di non aver osato riforme strutturali.

Il suo riformismo è stato quello del “cacciavite”: qualche piccolo aggiustamento qua e là per far girare meglio il sistema, ma senza mettere mano alla sua struttura. È stata questa la ragione per cui ad un certo punto Matteo Renzi gli ha dato la spinta e si è messo al suo posto di comando. Lo ha fatto, dice, per il bene del Paese. Quando si ristruttura una casa non ci si limita a qualche ritocco, ma si dà una nuova forma all’edificio buttando giù, se necessario, anche qualche muro maestro.

L’organizzazione della vita sociale è come un grande e complesso edificio fatto da tante parti armoniosamente collegate le une alle altre, riformarla strutturalmente significa cambiare dei pezzi importanti sostituendoli con altri. L’elenco delle riforme strutturali di cui ha bisogno il Paese è lungo.

Il presidente Napolitano nel citato discorso ne ha fatto un sintetico elenco: “Il da farsi è ormai delineato. Determinanti sono le riforme strutturali tra le quali già in cantiere, quelle per le istituzioni e per la pubblica amministrazione, per il lavoro e per un’economia più competitiva”. Ha aggiunto che tali riforme devono essere fatte “rapidamente” calcando con la voce l’avverbio. Solo così è giustificato il tono ottimistico con cui ha aperto il discorso: “Celebriamo quest’anno la festa della repubblica con un animo più fiducioso”.

Secondo la Commissione europea, ossessionata dai conti finanziari, la riforma strutturale, chiave di tutte le altre, è la diminuzione del debito, rendendo strutturale il pareggio del bilancio annuale. È fuori di discussione che l’immane debito pubblico è una crepa enorme che rende precaria tutta la struttura dell’edificio nazionale. Tuttavia, secondo una visione più completa del nostro sistema, la riforma più difficile e più urgente è quella del lavoro. Bisogna fermare la pericolosa frana che ha spazzato via in questi anni un milione e mezzo di posti di lavoro. Proprio in questi giorni la Cgia di Mestre ha calcolato che nel solo Veneto sono statti perduti quasi 200 mila posti.

Come colmare questa voragine e ridare speranza di lavoro ai tre milioni e mezzo di uomini e donne, soprattutto giovani, che cercano lavoro e non lo trovano? È necessaria una riforma della nostra struttura produttiva che produce i beni economici e offre posti di lavoro che assicurano un reddito a tutti coloro che vogliono guadagnarsi la vita e non vivere di rendita e sulle spalle degli altri. È evidente da anni che certi nostri settori produttivi sono ormai esauriti, soppiantati dalle produzioni che vengono dai paesi emergenti. Da essi non si può ottenere nuova occupazione: devono essere eliminati e sostituiti con settori innovativi. Ma qui è il problema. In primo luogo è necessario individuare bene questi nuovi settori che dovrebbero sostituire quelli in esaurimento, il che non è facile, perché la nostra economia è legata ormai a quella di tutto il mondo e bisogna individuare il posto dove possiamo competere con successo nel grande mercato globale. Ma non basta, c’è un aspetto che rende particolarmente difficile operare nel settore del lavoro. La struttura lavoro è fatta di persone.

Se da una parte è necessario rottamare con rapidità certe parti usurate, dall’altra non si può buttare sul lastrico milioni di lavoratori lasciando morire centinaia di fabbriche che non sono più competitive. Certa mentalità vorrebbe superare il dilemma senza badare troppo ai costi sociali, perché l’importante è cambiare, i benefici si vedranno in seguito. Noi non possiamo accettare soluzioni del genere, ce lo impedisce il concetto cristiano di persona e di vita sociale, ma anche la dubbia efficacia di azioni del genere. La storia dello sviluppo ci insegna che gli squilibri e i disagi sociali possono far fallire ogni riforma. Auspichiamo che le riforme sul lavoro del governo trovino il giusto equilibrio tra queste istanze contrapposte

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