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VENT’ANNI DOPO, L’ATTUALITÀ DEL MESSAGGIO DI DE ANDRÉ

L'editoriale del direttore don Alessio Magoga.

VENT’ANNI DOPO, L’ATTUALITÀ DEL MESSAGGIO DI DE ANDRÉ

“Non si guardò neppure intorno, ma versò il vino e spezzò il pane per chi diceva: Ho sete, ho fame”. È uno dei versi più famosi e più citati della canzone “Il pescatore” di Fabrizio De André, scomparso l’11 gennaio di 20 anni fa. La canzone narra di un assassino in fuga, tallonato dai “gendarmi” e soccorso da un misterioso pescatore, che offre al fuggiasco “il calore di un momento”, vale a dire il necessario per sfamarsi. Sullo sfondo, la storia tormentata di un’umanità sofferente, che ad un tempo è vittima e carnefice di se stessa, ma che è pure capace di gesti di sorprendente generosità verso i quali Faber (il soprannome coniato per lui) nutre un’evidente simpatia. Sono storie per lo più “senza redenzione”, quelle di De André. Non c’è mai un “evento risolutore” – come ci potremmo attendere – che faccia uscire i protagonisti dalla situazione di marginalità in cui si trovano. Non c’è mai il “lieto fine” che una certa retorica borghese e moralista (al limite anche ecclesiale) si attenderebbe. Le vicende degli emarginati e degli “scartati” della società – i prediletti di De André – restano lì, con tutto il loro carico di sofferenza e di dolore, ad inquietare i “benpensanti”. E ciò nonostante l’ascoltatore è invitato a cogliere, nell’oscurità complessiva delle scene delle canzoni, come dei piccoli bagliori di luce che promanano da questi gesti di inaspettata umanità: come quello del pescatore, appunto, che soccorre – senza batter ciglio, senza scomporsi minimamente – chi gli chiede aiuto.

Quasi a dire che proprio lì, dove ti attenderesti solo il male, fiorisce sorprendentemente qualcosa di nobile e di eroico, perché – così “Via del campo”, un’altra famosa canzone di Faber – “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono fiori”. Forse De André, inquieto ricercatore di senso e di Dio, intravedeva la via del riscatto e la possibilità di una salvezza “laica” proprio in questi gesti, di cui sono capaci solo gli ultimi e le vittime della società, non “gli sputa sentenze”, i benestanti e i potenti… Difficile non vedere nella poetica di De André – certo, insieme ad alcune importanti differenze – delle evidenti assonanze con il messaggio evangelico. La sua passione e il suo amore, così vivi, per gli ultimi della terra non possono non ricordare la compassione di Gesù per l’umanità dispersa e disorientata, che assomiglia ad un gregge smarrito e a “pecore senza pastore”. Anche la lucida consapevolezza, secondo cui, per Faber, sono proprio gli ultimi ad impartire lezioni di umanità, costituisce un altro punto di congiunzione con il vangelo. Gesù non parla forse di un “buon” samaritano che si prende cura di un malcapitato, aggredito dai ladri e lasciato lungo il selciato, dopo che un sacerdote e un levita lo avevano bellamente ignorato? Un po’ come gli abitanti di Torre di Melissa, ringraziati pubblicamente dal card. Bassetti nella sua introduzione al Consiglio della Cei, che hanno “saputo esprimere una solidarietà corale” nei confronti di una cinquantina di profughi in balìa delle onde. Per quanti sono cresciuti ascoltando le canzoni di De André, come lo scrivente, tutto questo appare quasi naturale. Eppure oggi questo suo messaggio non è più né ovvio né scontato e ci sentiamo un po’ orfani di artisti di questo spessore. A maggior ragione, allora, è opportuno esprimere gratitudine per chi – pur nella fragilità delle sue contraddizioni – ha saputo indicare a intere generazioni di giovani una “direzione ostinata e contraria” verso cui orientare la propria vita: quella della compassione e della solidarietà per l’uomo che soffre. E in questo momento della storia in cui “la passione per l’umano, per l’intera umanità, è in grave difficoltà” – come afferma papa Francesco nella bellissima lettera “La comunità umana”, in occasione del 25º anniversario della Pontificia Accademia per la Vita – i testi di De André ci paiono di bruciante attualità.

Alessio Magoga

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