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Vietato lamentarsi

L'editoriale del direttore don Alessio Magoga.

Vietato lamentarsi

“Vietato lamentarsi”: è questo il cartello che papa Francesco ha fatto affiggere da qualche settimana sulla porta d'ingresso del suo appartamento a Santa Marta. È il regalo di uno psicoterapeuta che si occupa di corsi motivazionali, incontrato all'udienza dello scorso 14 giugno in piazza San Pietro. Sul cartello – un po’ in basso e in un carattere più piccolo – si legge che «i trasgressori sono soggetti da una sindrome da vittimismo con conseguente abbassamento del tono dell'umore e della capacità di risolvere i problemi» e che «la sanzione è raddoppiata qualora la violazione sia commessa in presenza di bambini». «Per diventare il meglio di sé – conclude l’avviso – bisogna concentrarsi sulle proprie potenzialità e non sui propri limiti quindi: smettila di lamentarti e agisci per cambiare in meglio la tua vita».

Credo possa essere facilmente compresa la ragione per la quale il papa ha deciso di compiere tale gesto che a qualcuno potrà apparire inopportuno perché sembra stonare con la serietà delle questioni che un pontefice deve affrontare. “Chissà quante persone – ho pensato – andranno dal lui a lamentarsi di qualcosa o di qualcuno”. Chi ha qualche responsabilità – piccola o grande che sia – ne ha fatto sicuramente più volte esperienza. Certo, sappiamo tutti che i motivi per lamentarsi sono tanti sia dentro sia fuori la Chiesa. Basta aprire gli occhi e guardarsi attorno. Ahimè, anche in questi giorni… E poi non sono forse santi anche Giobbe e Geremia, quest’ultimo autore secondo la tradizione delle cosiddette “Lamentazioni”? E il papa stesso nell’udienza generale del 28 dicembre scorso non ha forse detto che anche Abramo si lamenta con il Signore e quindi che “lamentarsi con il Signore è un modo di pregare”? Insomma, le lamentele sembrano avere una dignità spirituale e teologica!

Sappiamo tutti che esistono delle persone che si lamentano per un nonnulla e lo fanno con insistenza. Ce ne rendiamo conto dal senso di fastidio che provocano in noi. Sono quelle che non vedono altro che problemi gravare su di loro e si sentono vittime di un sistema ingiusto. Tuttavia non propongono nulla per venir fuori dalla fatica – a volte anche reale ma certo da loro esagerata – che stanno attraversando. L’impressione è che la loro lamentela sia uno sfogo fine a se stesso: un modo per rinforzare la propria convinzione che la sfortuna si è abbattuta su di loro! Per queste persone, che diffondono a destra e manca sensi di colpa e di inadeguatezza, sono sempre gli altri i “persecutori”, cioè quelli che sbagliano e che devono fare qualcosa per cambiare.

Magari tra le fila dei lamentosi ci troviamo anche noi talvolta e non lo sappiamo neppure. Allora dobbiamo ringraziare chi – come il papa – in un modo magari un po’ originale ci sveglia da questa modalità di vivere inefficace e deprimente e ci apre gli occhi sulla necessità di assumerci la responsabilità di cambiare. Quanto alle “lamentele” di Giobbe, di Geremia o di Abramo, sono su un altro piano e di un altro tenore. Sono le parole di una persona messa a dura prova dalla vita che manifesta a Dio tutta la propria sofferenza: parole che salgono a Dio da un cuore gonfio di dolore, magari a causa di una grave malattia che si sta attraversando o della scomparsa di una persona molto cara... Queste in realtà non sono più lamentele ma un atto di affidamento – magari faticoso e tormentato – al Dio della vita, perché aiuti ad affrontare il tempo del dolore. Se non altro per rispetto a loro, cioè a quanti davvero sono nella prova, dovremmo smettere di lamentarci, ringraziare del bene che c’è e cercare soluzioni per costruire qualcosa di buono.

Alessio Magoga

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