
Si nasce e si muore. Dovrebbe essere qualcosa che si accetta, come una cosa normale, una cosa “naturale” (se questo termine, oggi, ha ancora diritto di cittadinanza). Paradossalmente morire fa parte della vita: che uno sia credente o che non lo sia. Di morte – noi dei giornali – scriviamo continuamente. Scriviamo delle morti in Ucraina. Di quelle in Palestina, a Gaza. Qui la gente muore a gruppi, a drappelli. E sembra quasi non far più notizia. Cioè, fa notizia, ma non interpella più. Non ci tocca e non ci indigna. Perché ci si abitua o si rischia di abituarsi. La morte “di molti” non fa più notizia. Non è una bella cosa e non dovrebbe accadere, eppure...
Dicono che la morte sia stata lasciata fuori dal modo di pensare di noi occidentali (noi europei, noi italiani). Preferiamo non pensarci. La ghettizziamo. La escludiamo dal nostro vivere. La segreghiamo altrove per non vederla. Non si muore più a casa, se non di rado. Si muore fuori, lontano dal contesto abituale dell’esistere. I bambini non vedono la morte: viene loro preclusa, quasi come per difenderli e proteggerli (magari non partecipano nemmeno ai funerali). Come se un giorno, poi, non ci dovessero fare i conti anche loro con questo grande mistero che inquieta.
E quel giorno arriva per tutti. No, non mi riferisco tanto alla morte personale (alla “mia” morte). Mi riferisco a quel giorno in cui fai i conti con la morte degli “altri” o, meglio, di un altro che ti è prossimo, cioè, vicino: quando muore un parente, un familiare, una persona cara... Magari anche una persona che non conosci bene – o che non conosci affatto – ma che, per qualche motivo, si intreccia con la tua vita e così ti senti coinvolto, interpellato, preso dentro. Come in alcuni casi avvenuti recentemente vicino a noi: un padre di famiglia che muore sul posto di lavoro oppure un sacerdote, nel pieno delle sue forze e del suo ministero, che viene a mancare improvvisamente.
La morte, allora, non è più quella anonima o quella dei “molti” che non fa notizia. No, è qualcosa che ti frigge dentro e ti interroga. Ti fa toccare con mano che proprio tu sei fragile, ma fragile davvero, e puoi spezzarti. E che la vita non è nelle tue mani o, se lo è, lo è solo parzialmente. Ti costringe a farti delle domande sulle tue priorità: sono davvero importanti quelle “cose” per le quali dedichi così tanto tempo e così tanta energia nei giorni che ti sono dati? E ti chiede di rivedere l’ordine delle tue “relazioni”: sono al posto giusto o stai trascurando alcuni legami che, invece, sono parte di te e di cui dovresti prenderti cura?
Il pensiero rallenta e si fa più grave. Sono questioni serie, anche difficili. Si è posti di fronte alle proprie scelte: quelle che dicono, in definitiva, chi sei e chi vorresti essere. Non è detto che, dinanzi a questi interrogativi, tutti i conti tornino. Possono venire a galla contraddizioni e dolorose smentite che preferiremmo non vedere. Si fatica ad accettare questo tipo di esercizio (quella che un tempo era chiamata “meditazione della morte”) e, se potessimo, lo rinvieremmo il più tardi possibile. O non lo faremmo mai. E, invece, dovremmo accogliere questi momenti come l’occasione per fare il punto e capire dove siamo nel cammino della vita o – per dirla con un libro tanto piccolo quanto luminoso di Martin Buber – “nel cammino dell’uomo”. Dovremmo accoglierli anche se fan male. È l’ora della prova, infatti. L’ora da non lasciar scoccare inutilmente: per quanto faticosa, ci strappa dalla superficialità e ci avvicina all’essere autentici.
Alessio Magoga