"Caro presidente Obama, ti ricordi il bambino caricato sull’ambulanza in Siria? Per favore, puoi andarlo a prendere e portarlo a casa mia? Lo aspettiamo con palloncini e fiori. Potremo giocare tutti insieme, gli daremo una famiglia e sarà nostro fratello”. Con queste parole, Alex, un bambino americano di 6 anni, ha chiesto al presidente degli Stati Uniti di aiutare Omran, il piccolo di tre anni salvato dai soccorritori dopo l’ennesimo bombardamento di Aleppo. Lo scorso 20 settembre Obama ha iniziato il suo intervento all’Onu sulla questione dei migranti proprio con le parole di Alex ed ha affermato: “Dovremmo essere tutti come lui. Pensate quanta sofferenza potremmo alleviare e quante vite potremmo salvare se fossimo come lui”. L’immagine di Omran, seduto da solo nell’ambulanza e ricoperto di polvere e sangue, è un pugno sullo stomaco. Difficile da dimenticare. Anzi, proprio non si deve dimenticarla. Come quella di altri bambini – ma anche di donne, adulti e anziani – vittime delle guerre di oggi, di cui siamo testimoni muti e impotenti. Guerre provocate da giochi di potere di gruppi locali e di potenze straniere. “Meditate che questo è stato. Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore… Ripetetele ai vostri figli”: così Primo Levi in “Se questo è un uomo” ammoniva i lettori a non dimenticare la tragedia dell’olocausto. Abbiamo il dovere di ricordare e di tenere a mente i drammi del passato, certo, e allo stesso tempo di aprire bene gli occhi su quelli che accadono oggi, in questo nostro inquieto e sanguinoso presente.
Papa Francesco ce lo ribadisce così spesso. E non solo a parole ma anche con dei gesti. La sua visita a sorpresa nei luoghi del terremoto del Centro Italia nei giorni scorsi è stata molto eloquente. Ormai non abbiamo più scuse per far finta di non capire che cosa significhi essere “chiesa in uscita”. Ce lo sta dicendo in tutti i modi. Nell’Angelus del 28 agosto, Francesco aveva detto: “Cari fratelli e sorelle, appena possibile anch’io spero di venire a trovarvi, per portarvi di persona il conforto della fede, l’abbraccio di padre e fratello e il sostegno della speranza cristiana”. I giorni scorsi ha dato compimento alla sua speranza. Quello di cui c’è bisogno oggi è avere a cuore la salvezza dell’altro, non soltanto la propria. Sperare nella salvezza dell’altro, che sia un bambino della Siria o un terremotato dell’Italia. In questi giorni “cattivi”, in cui l’imperativo sembra essere “si salvi chi può”, desiderare la salvezza dell’altro sembra un gesto tanto controcorrente e profetico quanto urgente. Nel suo viaggio nei paesi del terremoto il Papa è andato per portare un segno di vicinanza e soprattutto delle parole di speranza: “Andiamo avanti, sempre c’è un futuro... Coraggio, sempre avanti, sempre avanti. I tempi cambieranno e si potrà andare avanti”. Siamo chiamati davvero a seminare parole di speranza e a “sperare per tutti”, come ama dire Eugenio Borgna, psicoterapeuta e scrittore che ha partecipato tra l’altro alla recente kermesse letteraria di “Pordenonelegge”. Sperare – dice Borgna – “non è mai solo per noi stessi, ma anche per gli altri, perfino per quelli che non conosciamo”. Anzi, “la speranza ci è data – è data a ciascuno di noi – perché la si doni a chi l’ha perduta”. Sperare per tutti: è curioso che ce lo ricordino un bambino di sei anni e due quasi ottantenni. Ma, si sa, la speranza è una virtù bambina e più si invecchia più si ritorna bambini. Infatti, continua Borgna, “sono i cuori dell’infanzia, come i cuori che soffrono, a essere infinitamente più sensibili e a vedere cose che noi a volte, divorati dalla dura e ferita appartenenza alla terra, non vediamo. Solo la speranza risana le ferite, anche quelle sanguinanti, senza lasciare tracce né cicatrici”.
Alessio Magoga