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EMERGENZA UCRAINA: Il punto di vista di Caritas Italiana

Intervista a Daniele Bombardi, di Caritas Italiana, da molti anni a Sarajevo

EMERGENZA UCRAINA: Il punto di vista di Caritas Italiana

Originario di Ceggia ma a Sarajevo da diversi anni, Daniele Bombardi è coordinatore di Caritas italiana per l’area balcanica. Il suo è un punto di vista privilegiato per conoscere quello che sta accadendo nell’Europa dell’Est.«Caritas Italiana – spiega Bombardi – è presente nei Balcani dagli anni ’90, da quando cioè le guerre nell’ex-Iugoslavia hanno richiesto una presenza molto forte per la gestione del post-conflitto e dei profughi. Da allora, Caritas è sempre stata presente. All’inizio con un fine soprattutto di tipo operativo: c’erano cose da fare e i volontari italiani se ne occupavano in prima persona. Con il tempo, abbiamo investito energie per far nascere Caritas locali e, gradualmente, assegnare loro le emergenze del territorio. La mia funzione, in particolare, è quella di affiancare le Caritas del Balcani - formando, facendo dei progetti con loro… - affinché crescano le competenze necessarie per gestire le povertà che hanno davanti: le migrazioni, certo, ma non solo. Il nostro impegno, quindi, è quello di affiancare, restando “dietro le quinte”, anche se nelle situazioni di emergenza ci mettiamo, anche noi, in prima linea».

Fino a qualche mese fa si parlava molto di Lipa, della “rotta balcanica” e delle tensioni al confine tra Bielorussia e Polonia. Ora l’attenzione sembra tutta concentrata sulla guerra in Ucraina.

«Non c’è solo la grandissima emergenza che stiamo vivendo in Ucraina e nei Paesi limitrofi, che stanno cercando di accogliere i profughi. Proseguono anche le altre emergenze e le altre crisi, in particolare quelle migratorie, che abbiamo visto nei mesi scorsi. Mi riferisco, appunto, al confine tra Polonia e Bielorussia e a Lipa. Queste emergenze, in realtà, sono un po’ “rientrate”, almeno nelle loro forme più gravi. Però la fragilità di questi due percorsi migratori rimane molto elevata. L’emergenza è dietro l’angolo: basta una minima variazione per mettere nuovamente in difficoltà queste rotte migratorie. Va detta poi un’altra cosa: l’arrivo di tanti profughi dall’Ucraina fa sì che molti sostenitori internazionali concentrino i loro contributi per questa emergenza, tralasciando altre situazioni di crisi. Pertanto è possibile che ci si trovi in emergenza lungo questi altri percorsi migratori perché, di fatto, vengano dimenticati o quasi nessuno se ne occupi più. La crisi in Ucraina, quindi, ha dei risvolti difficili da prevedere, con il rischio di far dimenticare altre situazioni di emergenza».

Per quanto riguarda l’Ucraina, che cosa sta facendo Caritas Italiana?

«Conosciamo molto bene “le” Caritas dell’Ucraina perché da tanti anni collaboriamo con loro in tante forme. Non dimentichiamoci che l’Ucraina viene da una guerra che è iniziata nel 2014, con movimenti importanti di sfollati e problematiche legate al conflitto. Già da tanti anni, quindi, stiamo affiancando le due Caritas dell’Ucraina. Sono due, perché nel contesto ucraino ci sono due espressioni della Chiesa cattolica: una di rito romano e una di rito greco. Pertanto c’è una Caritas che fa riferimento alla struttura greco-cattolica ed una che fa riferimento a quella romano-cattolica. Stiamo lavorando con entrambe: le due realtà, insieme, costituiscono una rete molto forte, considerando i rispettivi uffici diocesani, parrocchie, strutture di vario tipo… Hanno deciso di restare operative anche in queste settimane, eccetto le sedi nei luoghi ad altissimo rischio, come Kiev e Kharkiv. In tutto il Paese stanno cercando di far funzionare i vari centri per offrire accoglienza, ospitalità nei rifugi, trasporto sicuro verso il confine, distribuzione di cibo e kit igienici… Stanno facendo un servizio straordinario di assistenza alla popolazione. E poi stanno cercando di coordinare gli aiuti che arrivano dall’estero. Davvero lodevole l’impegno della due Caritas».

Quali notizie ti giungono dall’Ucraina?

«La settimana scorsa una delegazione di Caritas Italiana è stata in visita nei Paesi limitrofi (Polonia, Romania, Moldova) per capire quali bisogni emergano e capire come sostenere le Caritas locali per attuare un’ospitalità che sia all’altezza della situazione. Quello che colpisce è la grande dimensione del conflitto. L’Ucraina è un grande Paese con oltre quaranta milioni di abitanti e le città assediate hanno centinaia di migliaia di abitanti: i movimenti di profughi che si stanno verificando sono su una scala che non abbiamo mai conosciuto prima d’ora. All’interno di questa situazione, ci sono rischi di diverso genere. Penso alla necessità di far evacuare dagli orfanotrofi i minori, che rischiano di non avere nessuno che li accompagni adeguatamente, se non i loro tutor soltanto. Penso alle persone con disabilità, costrette a restare nelle città assediate perché non possono muoversi. Una fetta di emarginati rischia di essere ancora più emarginata. I colleghi stanno facendo il possibile: stanno occupandosi di numeri enormi di profughi. Molto dipenderà anche da quanto la guerra continuerà, perché all’inizio le energie sono sempre molte, insieme alla generosità ed all’entusiasmo; poi però la stanchezza si fa sentire. Se la situazione dovesse prorogarsi per mesi, anche le Caritas locali andranno incontro a grosse fatiche».

L’Italia sta dimostrando una grande vicinanza al popolo ucraino. Un buon segnale...

«La risposta che sta dando l’Italia è certamente qualcosa di positivo. Da tutte le parti, vediamo una solidarietà enorme: non solo dall’Italia, ma anche da tutta l’Europa. Una solidarietà a tantissimi livelli. Al momento vedo tre ordini di intervento sui quali la solidarietà deve misurarsi. Innanzitutto in Ucraina, sia adesso, durante la guerra, sia dopo, per la ricostruzione. Vediamo immagini di città rase al suolo ed il problema della ricostruzione si porrà, una volta che le armi taceranno. L’altro ordine di intervento riguarda i Paesi limitrofi, cioè i Paesi che in questo momento stanno ricevendo centinaia di migliaia di profughi: penso anche ai Paesi balcanici. Dipenderà molto dalla durata: se la guerra si ferma presto, i profughi potranno tornare; se invece si prolunga, dovranno essere accolti per periodi più lunghi e questo richiederà un supporto economico-operativo adeguato, dal momento che questi Paesi non hanno le risorse sufficienti per garantire una gestione a lungo periodo. Il terzo ordine riguarda l’accoglienza in Italia: adesso sono oltre i 50 mila i profughi arrivati, secondo il ministero. Teniamo tutti e tre questi ordini sotto attenzione, senza dimenticare che la guerra continua. Bisogna fare fronte all’immediato, senza perdere di vista il medio e lungo periodo: solidarietà e generosità funzionano molto bene nei primi mesi, poi diventa impegnativo garantire un certo tipo di accoglienza e quindi c’è bisogno di un aiuto che sia strutturato e consenta di reggere per tempi lunghi».

Vivi a Sarajevo da diverso tempo. Che clima si respira? La guerra in Ucraina com’è percepita?

«Farei un primo discorso a livello empatico. Questa guerra ha risvegliato dei traumi che non sono ancora stati rielaborati in Bosnia. Ho visto in alcune persone quasi un senso di panico, non perché la guerra stesse arrivando, ma perché proiettavano in quello che vedevano a Kiev quanto avevano vissuto qui 20 o 30 anni fa. Ho visto gente fare scorte alimentari, come se dovessero rivivere la guerra: è il “post-traumatic stress disorder” che fa riemergere dei traumi non ancora risolti. Poi c’è un secondo discorso, di carattere politico: in Bosnia Erzegovina c’è una regione che ha mire secessioniste; c’è, quindi, la forte preoccupazione che quanto sta accadendo in Ucraina abbia effetto nel medio periodo nella destabilizzazione del Paese. Al momento è tutto tranquillo, perché tutti guardano a quello che sta accadendo in Ucraina: c’è da chiedersi se, quando la guerra finirà in Ucraina, i secessionisti si sentiranno ancora più forti ed esaspereranno i tentativi di autonomia. La preoccupazione è molta. Anche perché sappiamo che nei Balcani, quando si mettono in moto queste dinamiche, sono sempre molto difficili da gestire. Basta poco per riaccendere tensioni che sono latenti da sempre».

Da Sarajevo, quali scenari futuri riesci a intravedere?

«Sono passati trent’anni dal conflitto in Bosnia. Il Paese sta ancora pagando gli effetti: disorganizzazione, povertà, odio interetnico… Sono dinamiche che non si cancellano in poco tempo. Quello che stiamo vedendo in Ucraina è un trauma che, sia gli ucraini sia noi, ci porteremo dietro per molto: ci sono centinaia di migliaia di persone che non sanno se potranno ritornare a casa o se si dovranno ricostruire una vita da un’altra parte; ci sono odi che è difficile rielaborare; ci sono perdite di vite umane che non si sanano; c’è una giustizia da garantire che non sempre si riuscirà a far rispettare e questo inquinerà i processi di riconciliazione negli anni a venire… Mi viene un po’ di sconforto, pensando che questi effetti accompagneranno per molto tempo il nostro lavoro e le nostre vite. Anche se investiremo cifre importanti per la ricostruzione, non sarà sufficiente per risanare altre ferite della popolazione coinvolta. Dall’altro lato, però, c’è anche questa grande dimostrazione di solidarietà: se riusciamo a conservare questa solidarietà nel tempo, magari, le dinamiche di riconciliazione potranno essere accelerate. Coltivare la solidarietà è un bene preziosissimo anche per gli anni a venire».

Un messaggio?

«Sto vedendo tantissimo impegno da parte della Caritas di Vittorio Veneto: raccolte viveri e medicinali, accoglienza, raccolte fondi… In questo momento siamo tutti attenti ed ospitali nei confronti degli ucraini ed è bene che sia così. Nella rotta balcanica, però, ci sono siriani e afgani che provengono da situazioni simili a quella dell’Ucraina: credo sia bene che tutti possano trovare la stessa ospitalità e la stessa accoglienza che stiamo dando agli ucraini».

Alessio Magoga

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