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Il gioco della vita

La rubrica di Matteo Pasqual.

Il gioco della vita

Quando nasce un bambino la sua capacità relazionale è in divenire e i suoi codici comunicativi sono differenti rispetto agli adulti che lo accolgono. La sua capacità di reazione agli stimoli è incontrollata, il suo corpo non gli appartiene, nel senso che non lo governa, è ancora una parte di un altro, la madre che lo ha partorito. Questo è vero in tutto tranne per la bocca che è l’unica dimensione che soddisfa due bisogni indispensabili: quello primario esistenziale della nutrizione e quello primario sociale del gioco.

Attraverso la suzione il bambino scopre ben presto queste due dinamiche e riesce a separarle in base alle sue esigenze. Questa sua, nostra, capacità ci permette fin da piccolissimi di incontrare l’altro non solo nella forma della necessità ma in quella dell’interazione per un fine diverso.

Crescendo il gioco continua ad essere lo strumento privilegiato per la sperimentazione e la conoscenza dell’uomo, di sé e degli altri.

Il linguaggio ci consente di abbracciare un'idea, di comunicare i nostri sentimenti, di fare commenti sul mondo e di comprendere le ragioni degl’altri ma i genitori non insegnano esplicitamente il linguaggio, eppure tutti i bambini imparano il linguaggio più o meno nello stesso modo e all'incirca nello stesso periodo dello sviluppo, anche se provenienti da ambienti radicalmente diversi. Lo strumento innato rimane sempre il gioco, il gioco di imitazione. La vocalizzazione, la lallazione, la proto-conversazione, la segmentazione, fino ad arrivare all’associazione parola/significato/emozione sono tutti stadi nel quale il bambino, ciascuno di noi, ha continuato ad imitare, prendere in giro, fare il verso a questi adulti che si aggirano per casa.

Di più.

La capacità di muoversi, di spostarsi nello spazio per prendere oggetti o inseguire i fratellini, il trascinarsi, lo spingersi, il gattonare, l’appendersi e tirarsi in piedi, non sembra tutto un gioco, tutto un imitare chi in casa ha un comportamento diverso dal proprio? Non è forse questo principio che ci ha portati sulla Luna? La scoperta del mio corpo e del mondo che abbiamo accanto? Il desiderio di scoprirsi attraverso un'altra persona da imitare? Quando da piccoli guardiamo in alto questi “giganti” ci abituano ad alzare lo sguardo a scoprire un cielo, a desiderare le stelle, “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza"(XXVI canto dell’Inferno), “salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch'i' vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle.” (XXXIII canto dell’Inferno)

Lo sviluppo psico sociale cognitivo nei bambini da 0 a 3 anni è il più elevato rispetto a tutto il resto della vita, da Piaget in avanti, tutti i grandi teorici dell’età evolutiva, con le diverse sfumature, hanno teorizzato che il bambino, ciascuno di noi, all’età di 3 anni abbia già percorso il tratto di strada più lungo nella sua evoluzione. E tutto questo non ce l’ha insegnato nessuno. Lo abbiamo appreso attraverso il gioco!

E allora che farne di questa attitudine?

Sta a noi adulti a non confondere il gioco con il giocattolo! Il primo è un’esperienza, l’altro è un oggetto. Il primo serve per liberarci, il secondo per possederlo. Il primo è vita, l’altro è insignificante. Se c’è un regalo che possiamo fare ai nostri piccoli che possa aiutarli a divenire sempre più uomini e donne sia un nostro tempo, un nostro spazio dedicato per giocare assieme. “L’uomo è veramente uomo soltanto quando gioca” (F. Schiller)

Il gioco della vita
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