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Intervista a padre Guido Bertagna

Don Fabio Mantese ha intervistato Padre Bertagna, sacerdote gesuita che si è impegnato per far rincontrare da una parte le vittime e dall’altra parte coloro che si eranto resi responsabili di fatti di sangue.

Intervista a padre Guido Bertagna

Di seguito mettiamo a disposizione dei lettori la trascrizione integrale dell’intervista di don Fabio Mantese a p. Guido Bertagna. L’intervista, datata 15 gennaio 2016, era stata collocata in apertura di un momento di preghiera dal tema “C’è più gioia in cielo… quando costruiamo la pace”, tenutosi presso la Cappella del Seminario della Diocesi di Vittorio Veneto (TV), nel contesto dell’iniziativa per giovani “Scuola di preghiera” 2015/2016.

Padre Guido Bertagna, gesuita che vive attualmente a Padova, ha lavorato per molti anni a Milano, presso la parrocchia di San Fedele, nel centro di Milano. Perché lo abbiamo invitato questa sera? Cosa c’entra con il nostro percorso di scuola di preghiera? C’entra perché negli ultimi anni padre Guido si è occupato di una cosa audace e delicata al tempo stesso, ossia ha tentato - non da solo ma assieme ad altre persone che lo hanno aiutato – di far incontrare tra loro due categorie di persone. Riesplorando un pezzo della storia d’Italia – che forse noi non abbiamo vissuto direttamente perché siamo un po’ giovani ma che abbiamo studiato e di cui abbiamo sentito parlare alla televisione – ha fatto rincontrare da una parte le vittime e dall’altra parte coloro che si erano resi responsabili di fatti di sangue, anche molto gravi. Stiamo parlando di lotta armata e quindi di un periodo di terrorismo dentro casa nostra, che ha seminato molta paura tra le nostre famiglie. Vorrei subito farti la domanda: questi percorsi che avete fatto con queste persone e che hanno portato in alcuni casi alla riconciliazione si chiamano “percorsi di giustizia riparativa”. Cosa vuol dire?

Innanzitutto buonasera a tutti e grazie per avermi invitato qui. Ci inseriamo nel solco di incontri molto belli condivisi con voi giovani. La “giustizia riparativa” è un itinerario di giustizia, è un cammino possibile, volontario e liberamente accolto, che da alcuni anni è previsto anche dalla legge italiana. Parliamo di percorsi in cui – lavorando dapprima separatamente con le parti, le vittime da un lato e gli autori di reato dall’altra – si può, sottolineo si può (siamo nell’ambito delle possibilità non delle certezze!), piano piano, con tempi non prevedibili quando si comincia il percorso, arrivare a qualche elaborazione del male, che ogni reato sempre contiene specialmente quando sono reati gravi contro le persone - ferimenti oppure omicidi: di questo si tratta, spesso, in quel periodo storico relativo agli anni ’70 e ‘80. Un po’ alla volta queste persone possono accettare di incontrarsi e scoprire che c’è una possibilità di elaborare “diversamente” e di vivere “diversamente” il male che hanno fatto o hanno subìto.

 

Quante persone sono entrate in contatto con te o avete cercato di contattare? C’è stata un risposta “libera” da parte di queste persone sia da una parte che dall’altra?

Sì, il cammino è volontario e libero e non può che essere così. Si entra perché lo si vuole, perché matura una sufficiente serenità di fronte a questa prospettiva, perché si accetta di fare il cammino… Tra le persone legate ai fatti di quegli anni abbiamo raggiunto 60/70 persone, mentre quelle coinvolte in un modo o nell’altro in fatti di sangue sono migliaia. Come potete immaginare il numero è piccolo rispetto alle proporzioni dei fatti che tracciano anche un arco di tempo piuttosto lungo. Convenzionalmente gli anni del terrorismo in Italia durano dal 1969 al 1983, anche se in realtà sono iniziati prima e sono finiti dopo. Ma più o meno gran parte dei fatti sono accaduti in quell’arco di tempo lì... Di queste decine, che ho ricordato, solo alcune hanno accettato di fare parte di un gruppo che è andato avanti per anni e prosegue tutt’oggi.

 

Immagino che sia un percorso molto laborioso. Mi metto nei panni di coloro che hanno subìto un attentato o hanno avuto un famigliare ucciso… Come si comincia e quando una persona inizia ad aprirsi ad un percorso del genere? Come accetta di farsi aiutare e può cambiare il proprio ruolo?

Una delle esperienze più diffuse - in particolare nel mondo delle vittime e dei famigliari delle vittime - è la seguente. Anche quando queste persone si trovano (o si sono trovate) in una situazione in cui la giustizia ha stabilito con una certa sicurezza i colpevoli, la dinamica dei fatti e ha comminato pene (negli anni dei processi erano anche abbastanza dure…) e i famigliari delle vittime hanno avuto giustizia, non entra ancora la pace. Non sono gli anni di galera che deve fare il colpevole nel vissuto di queste persone a restituire una qualche forma di pace o di sufficiente serenità in rapporto con quello che si è patito. Inoltre, c’è un lavoro che ha a che fare con il dolore. Da una parte, la pace risponde a una più che legittima rabbia. Dall’altra c’è un dolore che ha bisogno piuttosto di trovare un senso.

 

E non c’è niente di automatico penso, in un percorso del genere…

Non c’è niente di automatico e non c’è neanche il fattore tempo. C’è un proverbio molto diffuso e ci ricorda che il “tempo è un buon medico”: passando il tempo, si dice, le cose si appianano, in qualche modo i ricordi sfumano. L’esperienza di queste persone sembrerebbe dire che questo in larga parte non è vero: il tempo da solo non basta e in molte situazioni rende più profondo il dolore, indurisce le posizioni. Se non si fa un lavoro sulla memoria, se non è un tempo che è vissuto ma soltanto lasciato scorrere sui ricordi dolorosi, non guarisci affatto.

 

Quindi questo tempo va riempito con qualcosa d’altro, mi par di capire?

Sì. Una persona, che ha fatto tutto il percorso e ha incontrato tra gli altri anche i responsabili diretti, gli assassini di suo papà, diceva per esempio che è come aver dentro un “elastico” attraverso il quale la tua vita è sempre legata a quel giorno, indimenticabile evidentemente, incancellabile. La vita va avanti, naturalmente. Cammini, fai strada, passano gli anni, ti fidanzi, ti sposi, ti laurei, fai dei bei figli, hai una tua vita… però c’è un pezzo della tua vita che rimane legato a quel luogo, a quel fatto, a quel giorno. Ed ecco appunto l’elastico: si tende negli anni e ti fa allontanare un bel po’ anche... Però poi basta niente, basta un pensiero, un ricordo, una parola che ti richiama un certo momento, magari un dettaglio che ti ricorda la vita della persona che hai perso e sei riportato duramente (perché l’elastico si è teso), sei riproiettato violentemente a quel luogo e a quei fatti dolorosi. Quindi o tiri fino che puoi oppure provi a sciogliere il nodo. Ci diceva questa persona: «Il nodo si può sciogliere solamente in due». Cioè non basta la mia eventuale volontà, ammesso che ci sia: bisogna farlo assieme.

 

Una domanda un po’ più personale. Quali gioie e quali paure hai provato anche tu nell’accompagnare queste persone e quindi anche quali speranze? Non si può essere da soli ma bisogna essere in due: il tuo essere uomo o il tuo essere prete mi fa dire bisogna essere in tre…

Sì, la presenza mia in questo caso - perché sono io qui questa sera - ma anche di altri che hanno condiviso il lavoro per anni come “mediatori” (questa è la definizione “tecnica”, metodologica), è importante per favorire la possibilità di un incontro. Le paure o le speranze sono specialmente legate a questo ruolo, che non è facile gestire, perché si teme di essere indelicati: quando sei a contatto con queste storie ti rendi conto di camminare veramente su terreni fragili: basta niente per ferire ancora, per dire quella parola, magari con le migliori intenzioni, che però non è opportuna… Oppure pensi (e temi) di non favorire abbastanza il venire a verità delle persone, un’apertura tra loro che sia più profonda, più vera e più efficace possibile... Questa evidentemente è anche la speranza. Andando avanti nel cammino tra alcune persone ci può essere prima un allentamento delle diffidenze e poi un acquisto di fiducia, che permette la comunicazione profonda tra le parti, tra coloro che sono stati nemici. In molti casi è accaduto che, sostanzialmente, arrivati a un certo livello del cammino, non ci fosse più bisogno del mediatore. Ci sono situazioni in cui senza che nessuna delle parti abbia dimenticato il dolore - anzi proprio in qualche modo “grazie” a quel dolore elaborato e rivissuto (mai dimenticato) - sono stati capaci di andare nelle profondità molto intime nella relazione con l’altro.

 

Ecco noi siamo un gruppo di giovani: veniamo qui una volta al mese perché crediamo che pregare ci aiuti. Quindi la domanda che voglio farti è che ruolo ha avuto e può avere la preghiera per un corretto rapporto con Dio, anche per raggiungere la possibile riconciliazione in queste situazioni.

Per alcune persone l’esperienza di fede è stata molto preziosa. In qualche caso decisiva sia per le vittime sia per persone che venivano dai gruppi armati e hanno riscoperto la fede. Non dimentichiamo che una componente non piccola dei cosiddetti gruppi terroristici e dei gruppi di lotta armata veniva dalle file cattoliche. C’era una percentuale significativa che è passata ed è poi magari ritornata. Tornando alla domanda: immagino abbiate sperimentato anche voi che, quando qualche persona vi ha ferito, anche per cose piccole o comunque meno gravi di queste, la ferita può scendere molto in profondità (un atteggiamento, una parola detta, un gesto...). Per un po’ di tempo, magari non breve, non riesco a parlarci... Un simile atteggiamento non è così anormale e non è così “anticristiano”. Attenzione: noi abbiamo l’idea del cristiano che è colui che deve perdonare sempre. Detta così è una sciocchezza: il cristiano è uno che fa un percorso come tutti gli altri, come tutti gli altri uomini e donne. Lo fa disponibile a lasciarsi illuminare dal Signore e dalla sua parola, che lo motiva e lo aiuta a fare una serie di passaggi che hanno dei loro tempi e una loro gradualità... Ad esempio nella preghiera, provate a pensare a situazioni in cui vi sono persone con cui avete un rapporto difficile: provate a pregare per loro, ad affidarle al Signore. A volte è difficilissimo perché la memoria di una ferita disturba e tendenzialmente il male subìto (ma anche il male commesso) tende a congelare le situazioni. Che cosa fa il congelamento delle situazioni? Fa sì che io identifichi quella persona con il male che mi ha fatto. Gli amici di cui vi abbiamo accennato stasera hanno fatto su di sé uno dei lavori più importanti e più difficili: riconoscere che quella persona che mi ha fatto del male o a cui ho fatto del male, e da cui quindi mi aspetto il peggio, quella persona non è come io l’ho interiorizzata. Riconosco e vengo veramente chiamato fuori per incontrare l’altro nella sua realtà. Questo è un percorso che può portare a un profondo incontro con l’altro e non è affatto automatico.

Ecco io penso che da queste parole possiamo tutti recepire qualcosa anche per le nostre situazioni, un po’ meno gravi forse. Lo accennavi tu stesso che qualche scontro, qualche sgambetto che ci hanno fatto che non abbiamo ancora digerito, qualche relazione interrotta magari per un nonnulla ha bisogno di essere un po’ risanata. Ultimissima domanda alla quale associo anche il nostro grazie per essere stato qui con noi: c’è un ricordo più bello o qualcosa che di questa esperienza che ti porti dentro e che la caratterizza un po’?

Ce ne sono molti e che spesso sono ricordi di vita quotidiana. Ma tra i diversi uno di questi: ad un certo punto a una persona che ha fatto parte di un gruppo armato hanno trovato un tumore e ha cominciato a fare le cure. Mi trovavo nella città dove questa persona vive e sono andata all’ospedale a trovarla. Mi sono messo d’accordo di andare con un’altra persona, che era stata duramente colpita nei suoi affetti proprio dalle azioni a cui la prima aveva dato il suo contributo. C’era già stato un incontro molto profondo tra loro e entrambe avevano cominciato a frequentare il nostro gruppo. Siamo andati a trovarla insieme e lì intorno al letto si parlava degli altri familiari di questa donna malata, del compagno e delle altre persone. Il giorno dopo doveva ricevere una medicazione: in quel momento non c’erano famigliari che fossero disponibili l’indomani per l’assistenza. Quello che mi ha colpito è stata la totale naturalezza con cui alla figlia della vittima è venuto spontaneo e semplice offrirsi per assistere alle cure. Come fosse diventata una di famiglia…

Grazie Padre Guido. E penso che sia da ringraziare che il Signore per questo vostro mettervi nelle sue mani e contribuire anche a questo percorso che magari per molti di noi è difficile anche da pensare e immaginare.

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