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MUSICA: alcuni tratti delle liriche dei Baustelle

L'irriverente gruppo musicale toscano tocca temi fortemente esistenziali 

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MUSICA: alcuni tratti delle liriche dei Baustelle

Per alcuni motivi, che non sto qui a snocciolare per motivi di spazio, da un po’ di tempo mi è capitato di ascoltare i Baustelle. Per chi non li conosce è un gruppo musicale italiano nato nel ‘96 a Montepulciano. Nel corso degli anni la formazione si è stabilizzata attorno a tre elementi, precisamente Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini. Il nome del gruppo, in tedesco, significa “cantiere, posto di lavoro”. Alcuni dei loro pezzi hanno avuto un certo successo: “Charlie fa surf” tanto per citarne uno.

Ora – lo diciamo subito – i testi delle loro canzoni talvolta hanno un tono e dei contenuti discutibili, financo dissacranti e anticlericali. Quindi possono anche irritare, infastidire, non piacere. Ma siamo liberi, si può girare la ghiera e trovare altra musica più confacente alle proprie orecchie. Tuttavia, alla luce della nostra frequentazione da “non esperti”, si possono notare alcuni tratti che nell’ultimo album “Elvis” (uscito l'aprile scorso) sembrano ulteriormente sviluppati, maturati.

Innanzi tutto, è frequente il ricorso all’immaginario e al linguaggio religioso: i temi biblici, i termini della tradizione cristiano-cattolica... sono spesso presenti nei testi delle loro canzoni. Certo, sovente per ipercriticare o per prendere le distanze: in ogni caso, ci sono e la loro presenza, come un enorme elefante bianco nella stanza, testimonia l’assillo di un’inquieta domanda su Dio che – seppur contestato, negato, criticato... – sta lì e interroga, interpella, domanda. Nei brani di “Elvis”, in particolare, questa ricerca di Dio sembra via via cresciuta e addirittura più limpida, più evidente. Ci riferiamo a “Regno dei cieli”, ad esempio (ma non solo!): notevole è il coro conclusivo che è – se non ci sbagliamo di brutto – un’esplicita invocazione, un’accorata domanda di salvezza: “Mio Signore, vienimi a salvare...”.

Un secondo filo rosso che con gli anni si è consolidato ha a che fare con il senso di “vuoto” della vita. Qualche tempo fa ho scritto un editoriale sul fatto che la visione pascaliana della vita, oggi, non sembra avere più presa: la percezione, appunto, del vuoto che abita la vita dell’uomo e del quale Pascal trova il senso vuoto in Dio. Ebbene, i testi dei Baustelle sembrano smentire questa nostra lettura: non tanto perché il loro percorso conduca necessariamente a Dio (non è palese se siano credenti o meno), quanto piuttosto perché i loro testi – e in modo esemplare i brani di “Elvis” – insistono con disarmante lucidità sull’inanità e vacuità del tutto. Altro che insostenibile leggerezza dell’essere... Da “Le rane” a “Piangi Roma” a molti altri pezzi, emerge tragicamente la precarietà e inconsistenza della vita. L’esito potrebbe essere la fede. Ma anche il baratro della droga, della pazzia o della disperazione. Per i Baustelle restano in piedi tutte le alternative. Appunto, a mio avviso, anche quella della fede: troppo ingenuo?

Ci sono anche altri temi che ricorrono con urticante insistenza. Quello della morte, ad esempio: l’ospite inquietante guardato fisso negli occhi, senza sconti, senza sdolcinature. Ma anche quello dell’amore. Colpisce in “La nostra vita” (un pezzo che merita di essere ascoltato con molta attenzione) come questo amore (di coppia) sia desiderato come realtà che dura per sempre, che sfida la morte, che va oltre la finitudine dell’esistenza, che vive per sempre... Perché, poi, è questo che tutti cerchiamo: essere amati ed essere amati per sempre.

Certo, poi c’è anche molto altro nelle loro liriche (come dicevo anche discutibili). C’è anche l’amore per una città, Milano, con bellissimo ed azzeccato brano: “Milano metafora dell’amore”. Ma quelli elencati ci appaiono degni di qualche considerazione non oziosa. AM

(foto: gentilmente concessa dall'autore, che ringraziamo, Alessandro Treves)

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