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Le mascelle dell'ingiustizia

L'editoriale del direttore de L'Azione don Alessio Magoga.

Le mascelle dell'ingiustizia

"E questo è il pellicano, che si distrugge per ridare la vita ai suoi piccoli, ed è l’allegoria di Gesù Cristo. E questo è stupendo!”. Sono parole di Dario Fo, Nobel per la letteratura 1997 e scomparso il 13 ottobre scorso. Commentava così, alcuni anni fa, lo splendido duomo di Modena, ricco di fregi e di bassorilievi che rappresentano scene e figure bibliche. La sua spiegazione si soffermava poi su un’altra scultura – tra le tante del duomo – e precisamente su quella in cui Sansone rompe le mascelle del leone. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un’allegoria di Cristo che – ribadiva Fo – “rompe la mascella dell’inferno e del demonio: apre la porta dell’inferno per poter entrare e liberare i suoi figli”.

Forse ciò che lo attraeva, più che la figura di Cristo in sé, era questa azione potente di cura e di liberazione nei confronti dei piccoli e degli ultimi del mondo. In molte delle sue numerose opere, infatti, ritorna il “leitmotiv” degli emarginati e degli oppressi, schiacciati dal potere. In esse, Fo dà voce – a volte in modo tragico, altre in forma comica – al loro grido di dolore e al loro anelito di libertà e di liberazione.

Il “Mistero buffo” – probabilmente l’opera di Fo più conosciuta in Italia – non esprime forse, in modo irriverente e sarcastico, questa sorta di rivincita degli ultimi della terra nei confronti dei detentori del potere civile e religioso? Questa sensibilità molto viva verso l’umanità sconfitta, vittima di soprusi di ogni sorta, si ritrova anche nelle canzoni di Bob Dylan, premio Nobel per la letteratura 2016.

I suoi testi – incisivi e poetici – sono popolati di uomini e donne segnati dall’ingiustizia e dalla violenza, desiderosi di una rivincita e di una possibilità di riscatto. “Hurricane” è forse l’emblema più eclatante – ma non certo l’unico – della volontà di Dylan di schierarsi dalla parte delle vittime. Il brano narra la vicenda del pugile nero Rubin “Hurricane” Carter, condannato ingiustamente per un triplice omicidio. Grazie a Dylan, fu riaperto il caso e nel 1985 “Hurricane” venne scarcerato, perché le accuse furono riconosciute infondate e basate esclusivamente su motivazioni di stampo razzista.

Dario Fo e Bob Dylan: due figure molto diverse tra loro, certamente, ma accomunate dalla volontà di stare contro il potere, quando esso diventa fonte di soprusi e di sfruttamento. Per l’uno e per l’altro si potranno avanzare senza dubbio delle critiche. Del tipo: non rischia di essere vana retorica questo ostentato appello ai diritti degli ultimi, quando viene espresso in una modalità a senso unico e sempre “politicamente scorretta”? Oppure, più radicalmente, non sembra che a questa liberazione degli oppressi, attesa e auspicata da entrambi, manchi qualcosa? In qualche modo lo facevano intuire le parole di Jacopo Fo, figlio di Dario, nel suo commiato al padre: “Noi siamo comunisti e atei, però mio padre non ha mai smesso di parlare con mia madre e chiederle consiglio. Siamo anche un po’ animisti, perché non è possibile morire veramente”. Come a dire che è necessaria una dimensione “altra” al di là di questa terra, perché – davvero – non può essere tutto qui: non è possibile che tutto finisca con la morte.

Ed è necessario dunque un altro Liberatore, che con la sua forza rompa le mascelle delle ingiustizie della storia e liberi definitivamente l’uomo, in tutte le sue dimensioni. In ogni caso, Fo e Dylan provocano a prendersi cura del prossimo, soprattutto degli inermi e degli indifesi. Anche i loro testi, in qualche misura, possono portare un contributo per “vincere l’indifferenza” e costruire una società un po’ più umana.

don Alessio Magoga

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