Editoriale
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TUTTO E' POSSIBILE

L'editoriale del direttore, don Alessio Magoga

TUTTO E' POSSIBILE

È un tempo di eventi estremi quello che stiamo vivendo. Ce lo ha insegnato la pandemia, anzi tutto. Nei tre anni che abbiamo alle spalle, il Covid ci ha fatto capire che, da un momento all’altro, tutto può cambiare. Ritmi di vita, abitudini consolidate, liturgie quotidiane ritenute intoccabili hanno subito inimmaginabili trasformazioni, come tutti abbiamo sperimentato.

Poi è arrivata la guerra, ma non quella lontana che vediamo, sì, sugli schermi televisivi ma poi, in fin dei conti, non ci tocca così tanto… È arrivata la guerra vicina, quella che preoccupa veramente e che incide sui conti di fine mese: la guerra tra Russia e Ucraina, che dopo un anno di combattimenti non lascia intravedere ancora alcuna via d’uscita, anzi fa temere un’escalation molto vicina ed evoca l’uso delle armi nucleari. Ripiombando così – se lo ricordano bene gli over 50 – nel clima della guerra fredda, quando alla sera davanti al telegiornale si seguivano le notizie del posizionamento, nello scenario europeo, dei missili a testata nucleare dei due blocchi contrapposti. Ve lo ricordate il film “The day after” del 1983, testimonianza eloquente dell’angoscia di quegli anni?

È un tempo – quello che stiamo vivendo – nel quale tutto può capitare. Nel bene, certo, perché in ogni istante potrebbe arrivare la notizia di una risoluzione di pace o per lo meno dell’avvio di una trattativa. Purtroppo, però, anche nel male, dal momento che tutto potrebbe precipitare rovinosamente, provocando danni irreparabili a livello mondiale. Questa percezione di fragilità è stata colta in modo molto chiaro dal Rapporto Censis 2022, secondo il quale “nell’immaginario collettivo [degli italiani] si è sedimentata la convinzione che tutto può accadere, anche l’indicibile”.

A questa situazione di fragilità diffusa, come ulteriore elemento di crisi è venuto ad aggiungersi il terribile terremoto che ha sconvolto nella notte tra il 5 e il 6 febbraio la Turchia e la Siria. Due Paesi confinanti, colpiti dalla stessa onda d’urto, e tuttavia con profondissime differenze, dal momento che la guerra civile in atto da 12 anni e il conseguente embargo contro il governo di Assad impediscono che si possa portare adeguato aiuto alle popolazioni inermi della Siria. La conta dei morti – nel momento in cui scriviamo – è arrivata a circa novemila vittime, ma si teme che possano essere molte di più. Certamente si è trattato di un cataclisma dalla portata straordinaria (7,5 gradi della scala Richter) e tuttavia non sono mancate – e non mancano – le responsabilità umane: da un lato, in Turchia, il ritardo nei soccorsi e la scarsa cura con cui sono stati costruiti gli edifici in una zona la cui alta sismicità era ben nota; dall’altro, in Siria, la guerra civile che ha reso estremamente fragile – e quindi difficilmente difendibile – il contesto vitale dei civili siriani, i quali si ritrovano ad essere doppiamente vittime: sia di una guerra che non vede fine sia di un sisma dalla portata apocalittica. In ogni caso, è troppo facile scaricare sulla “natura matrigna” i disastrosi effetti del terremoto. L’unica nota positiva, come sempre, la voglia di vivere delle popolazioni colpite e la gara di solidarietà a livello mondiale che, anche in questo caso, si è innescata: ci auguriamo che duri a lungo, non solo per i primi giorni dell’emergenza, e che si prenda a cuore, insieme alle vittime della Turchia, anche di quelle della Siria, una terra sin troppo martoriata.

Alessio Magoga

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