Nella notte del 17 agosto è mancato Gino Zanette, di Pianzano. Qualche tempo fa, lo avevamo intervistato per la nostra testata cartacea in occasione della pubblicazione di una delle sue ultime opere: "I fior de ‘na vita. Poesie in dialeto e italiano", StreetLib, 2021. Pubblichiamo integralmente l'intervista con gratitudine e stima per quanto Gino ha fatto per la cultura e anche per L'Azione (collaborando con la giuria del "Concorso letterario" promosso dal nostro settimanale).
«Quasi quarant’anni di lavoro, a tempo pieno, per il teatro: la mia passione più grande è stata quella. Anche adesso lo è». Esordisce così Gino Zanette, apprezzato poeta e scrittore di Pianzano. «Ho cominciato recitando in parrocchia. E poi sono andato avanti: quasi sempre con il teatro». Ricorda la commedia “La nemica” di Dario Niccodemi, in cui per la prima volta si sdoganò la presenza femminile a teatro: «È stato merito di don Paride Artico, un prete particolarmente intelligente (parroco di Pianzano dal 1948 al 1957, ndr). Prima di lui, neanche il suggeritore poteva essere donna!». Ha iniziato come attore e poi regista: «Ho preso in mano le compagnie di ragazzi ed ho cominciato a fare la regia. Scrivevo i copioni in base ai ragazzi che avevo. Mettevo insieme – con l’ausilio della biblioteca del Seminario – i testi per il teatro, rimaneggiandoli, dal momento che le parti femminili dovevano essere eliminate». Ha messo in scena la commedia di Ugo Betti (“Frana allo scalo nord”), quella di Niccodemi (“La nemica”) con le presenze femminili e poi molte altre.
Cosa le piace del teatro?
«Credo che l’emozione che si prova a stare sul palco sia impagabile. Io ho deciso di non stare sul palco, ma mi piaceva aiutare gli altri a starci. Così ho cominciato a cercare qualche libro e qualche rivista, a fare qualche spettacolo, per le suore e l’asilo, coinvolgendo i genitori e i bambini... Ho coinvolto (o mi ha coinvolto) la parrocchia. Un grande successo, l’ho ottenuto con “San Francesco” e il gruppo teatrale “La piccola scena”, che è durato dal 1982 fino al ’95. Poi i ragazzi sono diventati grandi ed ognuno ha fatto le sue scelte di vita, così il gruppo un po’ alla volta si è sciolto. Nel ’96 ho avviato una collaborazione con il gruppo teatrale dell’Università degli adulti e anziani di Conegliano e dal 2002 anche con il gruppo teatrale Ponte della Priula. Ogni anno, una commedia nuova: alcune integralmente scritte da me, anche in dialetto. Ho concluso nel 2012 con l’ultima commedia messa in scena qui a Godega».
Quali le principali fatiche e soddisfazioni?
«Una fatica è certamente assegnare i ruoli, perché nei ragazzi – ma anche negli adulti – a volte c’è la tendenza a scegliere il personaggio che viene considerato “migliore”. Però ci sono anche delle soddisfazioni. Penso ad alcuni bambini che si sono aperti con il teatro. Ho in mente una ragazzina che – diceva la mamma – a casa non parlava. Una volta salita sul palco, invece si è sciolta ed è partita con entusiasmo. Queste sono grandi soddisfazioni! Il teatro può aiutare a sciogliersi nelle relazioni. E poi il legame che si crea tra i membri di una compagnia teatrale è unico: è un’esperienza indimenticabile».
Nella sua carriera, ne ha fatte di cose…
«Forse ne ho fatte anche troppe! I copioni che ho scritto e che ho rielaborato sono davvero molti. E poi ci sono i corsi di dizione, gli incontri con i gruppi, le attività di formazione…».
Che cos’è la magia del teatro?
«Con il teatro hai davanti le persone cui esprimere un’emozione: hai un pubblico e capisci subito se sei entrato o no. Basta che cambino tre spettatori in una sala e cambia la sintonia. La cosa riesce se si crea una consonanza tra testo, attore e pubblico, mentre il regista è solo un mediatore. Sono sempre stato dell’idea che la cosa più importante è il testo: se il testo è buono, la commedia funziona; se il testo non ha un messaggio preciso, puoi avere anche un grande attore, ma il risultato non viene».
E poi c’è la poesia…
«Nel ’96 sono andato in pensione ed ho cominciato a lavorare “a pieno ritmo” per le mie passioni. Per la poesia, infatti, bisogna avere tempo, tanto tempo. A volte possono sembrare cose banali, ma messe in un certo ordine diventano efficaci. Bisogna tornare sulle parole, a volte fai fatica a costruire il verso, perché sia sonoro ed abbia una sua efficacia. A volte ce la fai, a volte no. Ci vuole anche un po’ di “mestiere”: se non trovi le parole giuste da mettere insieme, la poesia non rende».
Mestiere?
«Per mestiere intendo la metrica, le cadenze, gli accenti sulla frase, il peso che hanno, gli endecasillabi, i settenari… Se prendi in esame certe poesie “riuscite”, scopri che “sotto” hanno dei settenari o endecasillabi. La struttura ti aiuta a dare sonorità ai versi. Insomma, bisogna studiare. E lo stesso vale anche per il teatro: certe cose non le escogiti con la tua sola testa, ma si imparano se ci si attrezza, se si studia…».
Che significato ha il dialetto nella poesia?
«Con il dialetto trovo tutte le parole che mi servono. A volte trovo intraducibile l’italiano in dialetto. Abituati fin dai primi anni di vita a parlare in dialetto, è fondamentale per esprimersi. Sento che in dialetto le cose sono meno sofisticate e più spontanee. Così anche le poesie in dialetto, almeno le mie, le sento più spontanee».
Perché scrivere poesie?
«Per imitazione: perché trovi magnifico quello che hanno scritto altri. Si comincia così, almeno per me. Mi piacciono molto le poesie di Montale e Pavese. Mi basterebbe scriverne almeno una così. A volte succede e, scavando nelle emozioni, ho scritto qualche poesia che mi ha soddisfatto (ed ha avuto anche degli ottimi riscontri)».
Alessio Magoga
(Foto: onoranze funebri Sant'Osvaldo)