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Biodiversità e impronta ecologica

Il 2020, anno della biodiversità. Intervista a Francesco Boscutti dell’università di Udine

Biodiversità e impronta ecologica

In molti si chiedono, in questo particolare momento, se esista una correlazione tra le malattie, come il COVID-19 (COronaVIrus Disease-2019), che stanno trasformando il Pianeta e le dimensioni epocali della perdita di biodiversità e habitat naturali.

Gli studi ci dicono che quasi tutte le recenti epidemie sono dipese da alta densità di popolazione, aumento di commercio e caccia di animali selvatici e cambiamenti ambientali, quali la deforestazione, e l’aumento degli allevamenti intensivi specialmente in aree ricche di biodiversità

E’ ormai assodato che gli ecosistemi naturali, che si tratti di foreste temperate o tropicali, di bacini fluviali o di zone umide costiere, di ghiacciai alpini o di pianure continentali, hanno un ruolo cruciale nel sostenere e alimentare la vita, compresa quella della nostra specie.

Gli scienziati di tutto il mondo sono consapevoli che tra le cause della diffusione di malattie infettive emergenti come Ebola, Sars, febbre della Rift Valley, Zika e molte altre ancora, vi siano fattori importanti come la perdita di habitat, la creazione di ambienti artificiali, la manipolazione e il commercio di animali selvatici e più in generale la distruzione della biodiversità.

I cambiamenti di uso del suolo e la distruzione di habitat naturali – come la foresta amazzonica o quelle tropicali – sono considerati responsabili di circa la metà delle zoonosi emergenti. Basti pensare che la malaria, che ogni anno colpisce 350milioni di persone, ha tra i principali fattori umani facilitanti la deforestazione e la costruzione di dighe che riducono la diversità della presenza di specie di piante e la distribuzione delle zanzare.

Stiamo assistendo ad una sorta di effetto boomerang nella distruzione degli ecosistemi nel mondo con una crescente impronta ecologica dell’uomo ad ogni latitudine del Pianeta.

Per capire se sia possibile tutelare la salute umana e l’economia rurale conservando la biodiversità e i paesaggi agricoli, abbiamo posto qualche domanda al dott. Francesco Boscutti, Università di Udine, esperto di botanica ed ecologia applicata.

 

Dagli studi sui cambiamenti climatici, quali possono essere gli effetti provocati da una agricoltura sempre più intensiva, da un uso diffuso di fertilizzanti e dai massivi trattamenti anticrittogamici chimici nei vigneti sulla conservazione delle biodiversità?

La rivoluzione verde avviata dalla metà del secolo scorso ha indubbiamente portato a grossi giovamenti alle produzioni agro-alimentari, spingendo colture ed allevamenti a rese prima impensabili. Ma questa rivoluzione, come il mitologico Giano, ha rivelato due facce. Il prorompente ingresso della chimica in agronomia ha infatti portato a forti sconvolgimenti sia nei sistemi agricoli (agro-ecosistemi), sia in quelli naturali. Il massiccio impiego di concimi di sintesi o reflui zootecnici ad esempio ha creato fenomeni di eutrofizzazione di terreni e acque, favorendo poche specie bene adattate a gradi quantità di nutrienti (in natura generalmente scarsi), creando una generale diminuzione della biodiversità. L’esteso utilizzo di pesticidi sta severamente minando i servizi svolti dagli insetti impollinatori, come testimoniato dalle recenti evidenze sul declino delle api. Questi effetti risultano spesso amplificati dai cambiamenti climatici provocati dall’attività antropica, infatti inducono gli ecosistemi a stati di sofferenza legati soprattutto all’intensificazione dei fenomeni estremi, come siccità o inondazioni, rendendoli quindi più vulnerabili e in generale meno resilienti.

Un tempo siepi, gelsi, salici segnavano le nostre campagne. Funzionavano come barriere frangivento, utili a difendere dai venti freddi invernali e da quelli forti dei temporali estivi che potevano allettare i campi di grano poco prima della mietitura o come protezione dei filari di viti. Ora a malapena ci sono delle scoline e gli appezzamenti sono sempre più grandi. Solo cambio di paesaggio o fattore antropomorfo di cambiamento climatico?

La banalizzazione del paesaggio agrario è un fenomeno che ben esprime i concetti sopra riportati.

I paesaggi agricoli tradizionali, per vare esigenze, erano un tempo diversificati e ricchi di elementi prossimo naturali quali siepi, prati e aree umide. La spinta alla produzione ha indotto i contadini a considerare questi lacerti di naturalità quali tare produttive, suggerendone una completa eliminazione. In realtà, oltre alle citate funzioni agronomiche, siepi e altri ambienti naturali che separavano i campi avevano numerose altre funzioni utili al sostegno della biodiversità e dei servizi da essa regolati. Pochi considerano ad esempio che un paesaggio agricolo diversificato permette una maggior efficacia nel contenimento di patogeni, specie infestanti e dannose, soprattutto se abbinato a pratiche agricole sostenibili come il biologico o l’agricoltura conservativa. Questi concetti vengono oggigiorno rinverditi nell’ottica di proporre nuovi paradigmi produttivi. Ad esempio di recente la FAO ha introdotto il concetto di intensificazione ecologica (Ecological Intensification) che propone sistemi agricoli in cui si possa mantenere buone produzioni grazie al miglioramento della diversità del paesaggio agricolo e della gestione della biodiversità residua degli agro-ecosistemi.

La montagna si sta spopolando e stiamo sempre più minacciando i suoi fragili equilibri. Perché è importante recuperare la cura dei prati e dei boschi nelle nostre montagne, proteggere il paesaggio e ricostruire gli ecosistemi degradati?

Conservare la biodiversità e la natura non significa chiudere gli ecosistemi sotto una campana di vetro e preservarli da qualsiasi rapporto con le attività umane. Soprattutto in aree del mondo storicamente abitate come l’Europa, uomo e natura hanno spesso raggiunto equilibri millenari che hanno permesso la sussistenza delle popolazioni e la conservazione della biodiversità. I sistemi montani ne sono un esempio emblematico. Pascoli estensivi e gestione sostenibile delle foreste hanno non solo un effetto sulla economia locale ma premettono l’esistenza di habitat di grande valore conservazionistico e ricchi in termini di biodiversità. Un completo abbandono delle attività silvo-pastorali quindi non rappresenta l’optimum per la conservazione della biodiversità, innescando inoltre problematiche di sicurezza idrologica e percezione del paesaggio. Per questo motivo il sostegno delle attività agricole in zone marginali e montane è una priorità anche per la conservazione della biodiversità.

Crede che la biodiversità potrà essere riconsiderata come valore diffuso e non solo confinata in qualche bioparco?

Alla fine del secolo scorso l’economista ecologo Robert Costanza riuscì ad affermare nella comunità scientifica il concetto di “servizi ecosistemici”. I servizi ecosistemici sono i benefici multipli forniti dagli ecosistemi al genere umano. In maniera intuitiva tutti possono rendersi conto del ruolo che le piante possono avere per la qualità dell’aria, il ruolo che gli insetti pronubi hanno per le produzioni dei frutteti. Ognuno di questi servizi deriva dal funzionamento e biodiversità degli ecosistemi da cui l’uomo trae profitto o giovamento per la salute delle comunità. A più riprese si è stimato che i servizi che la natura fornisce all’uomo valgono quasi due volte il PIL mondiale e che se i tassi di perdita della biodiversità terrestre continuassero ai ritmi stimati, ci sarebbe una perdita pari del 7% del PIL entro il 2050. Questi numeri dovrebbero essere sufficienti per far riflettere anche le persone meno sensibili alle questioni ambientali.

La biodiversità vale molti soldi.

Da naturalista, queste stime non mi affascinano ma credo possano essere persuasive e sottolineare la necessità di politiche sempre più attente all’ambiente e alla biodiversità.

Dott. Boscutti crede che per rallentare la nostra ‘impronta ecologica’ sull’ambiente dovremmo agire sugli stili di vita?

Ne sono convinto. Una qualsiasi iniziativa politica è efficace nel grado in cui arriva ai cittadini (la polis). L’impronta ecologica valuta il consumo delle risorse naturali di ognuno di noi, mettendo ben in evidenza le contraddizioni globali tra paesi sviluppati e non. Cambiare la propria impronta ecologica significa agire sulle proprie abitudini: alimentari, energetiche di trasporti. Scelte sostenibili e consapevoli dei cittadini, meglio se sostenute da indirizzi politici chiari e condivisi, sono l’unico modello che in maniera capillare possa portare a un effetto globale. Tante piccole gocce possono riempire un oceano.

Quest’anno è stato dedicato dall’ONU al tema della biodiversità, un po’ in sordina. La FAO e l’UNEP si preparano a lavorare al Decennio dell’ONU per il ripristino dell’ecosistema a partire dal 2021. Si è cominciato così a parlare a livello globale di approccio “One Health”: potrebbe illustrarci brevemente verso dove stiamo andando?

Dovremmo sicuramente menzionare James Lovelock che il 26 luglio scorso ha festeggiato i suoi 91 anni e i 40 della sua affascinante teoria di Gaia per ricordare che le intime connessioni esistenti tra gli organismi viventi e il Pianeta si manifestano spesso in maniera imprevedibile, per la bellissima complessità delle interazioni che si formano. In questo contesto la visione olistica di One Health sottolinea la necessità di non trascurare la salute dell’ambiente per tutelare la salute umana. Come introduzione a questa intervista si rimandava alla grande emergenza sanitaria che stiamo vivendo e alle sue cause più profonde, difficili tutt’oggi da comprendere, ma che spesso coinvolgono nelle ipotesi le emergenze ambientali di cui abbiamo qui parlato.

Nella storia della Vita sulla Terra l’uomo rappresenta un’infinitesima parentesi, capace però di stravolgere in così breve tempo le sorti dell’intero Pianeta. Prendere coscienza di queste dimensioni, senza fossilizzare il dibattito sul contrasto tra visioni antropocentriche e integralismo ambientalista, garantirebbe un grande salto evolutivo.

La soluzione per un futuro meno legato a ospedali sempre più grandi, vaccini sempre più potenti, antiparassitari sempre più tossici, sementi sempre più performanti, passa anche attraverso la ricostruzione di quello che abbiamo distrutto, rimettendo insieme i pezzi degli unici sistemi in grado di proteggerci da epidemie e catastrofi: gli ecosistemi naturali. Dipende tutto da noi e dalle nostre scelte.

Enrico Vendrame

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