DIOCESI: intervista a tutto campo al vescovo Riccardo Battocchio
A sette mesi dal suo ingresso nella chiesa particolare di Vittorio Veneto
Alessio Magoga
27/12/2025
Fermo immagine dall'intervista realizzata negli studi della Tenda Tv

Negli studi della Tenda Tv, all’interno del programma “Natale con Noi”, mons. Riccardo Battocchio ha concesso un’intervista a tutto campo, dopo alcuni mesi dal suo ingresso nella diocesi di Vittorio Veneto. L’intervista, realizzata da Federico Campodall’Orto, è stata trasmessa anche da Radio Palazzo Carli.

Eccellenza, sono trascorsi già alcuni mesi dal suo ingresso. Come ha vissuto questo tempo? Come sta?

«Sto bene. Sono stati mesi intensi, ma non mi hanno messo troppo alla prova. Mi sembra di avere sufficienti energie da mettere a disposizione di questa diocesi che sto iniziando a conoscere».

Il suo ingresso, il 25 maggio, è stato un momento molto sentito dalla comunità. Che ricordo ne conserva?

«Ricordo un vero abbraccio. Il sole dopo giorni di pioggia, tanti volti conosciuti e molti nuovi. Ho percepito quello che Papa Francesco chiama “il piacere spirituale di essere popolo”: non tanto l’attenzione alla persona del vescovo, ma la gioia di essere Chiesa, insieme, in un momento significativo della propria storia».

C’è un momento particolare di quella celebrazione che l’ha colpita?

«Le litanie dei Santi, vissute prostrato davanti all’altare, e l’imposizione delle mani sono stati momenti molto forti. Ma anche l’uscita finale, l’incontro con le persone in piazza. In realtà ho vissuto tutta la celebrazione come una grande preghiera».

Fin dall’inizio ha scelto di incontrare i presbiteri della diocesi. Perché questa decisione?

«Era importante partire da lì. Ho incontrato i preti nelle foranie, dedicando tempo all’ascolto reciproco. Credo che questo abbia aiutato a trovare un primo ritmo comune per camminare insieme».

All’inizio disse: “Devo imparare a fare il vescovo”. A che punto è oggi?

«Sto imparando, e continuerò a farlo fino alla fine. Non si impara una volta per tutte: ogni incontro aiuta a conoscere meglio anche se stessi nel ministero».

Abita in una residenza particolare, il Castello di San Martino. Come vive questo luogo?

«Sulle prime temevo che fosse un luogo un po’ isolato, invece è un ambiente molto vissuto, nel quale è possibile fare tanti incontri. Mi sono sentito subito a casa. Ogni mattina, guardando dalla finestra, mi viene spontaneo un pensiero e una preghiera per tutta la diocesi, dalla montagna alla pianura».

In questi mesi ha incontrato moltissime persone. Quali incontri l’hanno colpita di più?

«Gli incontri con le situazioni di fragilità: case di accoglienza, comunità terapeutiche, anziani, giovani con storie difficili… Lì si tocca con mano quanta dignità e quanta sete di senso ci siano nelle persone».

E il rapporto con i giovani?

«Preferisco non parlare dei giovani come categoria. Sono persone, ciascuna con la propria storia. Gli incontri con loro, anche in occasione del Giubileo, sono stati molto incoraggianti. È chiaro che non tutti i giovani hanno la Chiesa come riferimento, ma quelli che sono coinvolti nella comunità ecclesiale possono essere un segno positivo e uno stimolo anche per altri».

Ha incontrato anche i sindaci del territorio. Che impressione ne ha ricavato?

«Sono rimasto colpito dalla loro disponibilità. Non era un incontro “dovuto”, ma desiderato. È emersa la volontà di lavorare insieme per il bene comune, pur nella fatica di un contesto complesso e segnato dall’individualismo».

Guardando al contesto nazionale e internazionale, che riflessione sente di condividere?

«Servirebbe un linguaggio meno urlato e meno polarizzante. I problemi sono complessi e richiedono pazienza. Il realismo, come ricorda papa Leone, non è accettare la legge del più forte, ma riconoscere e far crescere le possibilità di bene presenti nella realtà, anche andando controcorrente».

Torniamo alla diocesi. Come descriverebbe il suo presbiterio?

«Mi sono sentito accolto, con disponibilità ma anche con una certa curiosità. Le recenti scelte sui cambi di parrocchia sono nate da necessità concrete e sono state affrontate nel dialogo, chiedendo ai preti quella disponibilità che nasce dall’essere a servizio alla diocesi, non solo di una singola comunità».

Una delle sfide più citate è quella delle vocazioni. Come intende affrontarla?

«La questione non è semplicemente il numero dei preti. Pochi o tanti, rispetto a cosa? Il punto è il modello di Chiesa a cui ci è chiesto di ispirarci. Il soggetto dell’azione pastorale è la comunità cristiana nel suo insieme, non solo il prete, il presbitero. Continuiamo a pregare per le vocazioni e, allo stesso tempo, a valorizzare i servizi (i ministeri) che permettono alla comunità di vivere la propria missione».

Nella sua recente lettera per il nuovo anno pastorale, ha ricordato il “progetto prossimità”, avviato in diocesi grazie alla collaborazione di alcuni uffici pastorali. Cosa significa concretamente “prossimità”?

«Significa farsi vicini alle fragilità, uscire da una certa zona di comfort e collaborare anche con le realtà civili già presenti. È lo stile del buon samaritano: farsi prossimo. Questo è il compito del cristiano e un dono anche per la società».

Un messaggio per questo Natale?

«Non abbiate paura di credere al Vangelo, anche quando sembra controcorrente e fuori moda. C’è un realismo del Vangelo che aiuta a vivere e a sperare, perché rende visibile l’amore di Dio attraverso i nostri gesti, le relazioni, il nostro farci prossimi gli uni agli altri».

(trascrizione e revisione del testo di Alessio Magoga)

Il video integrale dell'intervista al vescovo di Vittorio Veneto, mons. Riccardo Battocchio

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